V

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«Cristo, Eren, ogni volta che ti guardo, penso a lei.»
Sussurrò il più grande, senza far trapelare nessun emozione dal suo tono; però, il più piccolo, poté quasi scorgere una nota di tristezza nel suo tono che, a causa di essa, uscì leggermente tremolante. Ma, con lei, a chi si riferiva?
«Quella sensazione quando mi toccava con le mani umide, la ricordo ancora. Aveva le mani gremite di taglietti a causa del suo lavoro, ma rimanevano pur sempre calde e morbide.»
Il più piccolo lo guardò con un cipiglio confuso stampato sul volto, non riuscendo a capire a cosa si riferisse. Il corvino, d'altro canto, era ormai immerso nei suoi vecchi, ma indelebili, ricordi. L'unica persona che avesse mai amato era sua madre e, in quel piccolo ragazzino dagli occhi color giada, la rivedeva. Così fragile, ma con quel luccichio che, nonostante tutte le cose che le succedevano, le ornamentava perennemente il volto.
Gli venne in mente il giorno in cui la donna stava cucinando e lui, felicemente, le stava trottorellando intorno, in cerca di affetto da parte sua. La donna lo osservò a lungo, prima di posare sul ripiano il coltello con cui stava affettando le verdure e pulirsi le dita sul grembiule che le copriva il busto, fin sopra le ginocchia. Si girò verso il più piccolo, allargando le braccia, sollevando gli angoli delle labbra carnose in un grosso sorriso, mentre delle lacrime solitarie le accarezzavano delicatamente il volto, andando ad infrangersi sul suo grembiule. Il figlio la guardò leggermente spiazzato, notando le lacrime, ma successivamente pensò che si fosse tagliata, di conseguenza non ci diede troppo peso. Il suo essere ingenuo lo portava ad essere ignoto a tutto ciò che accadeva in quella casa maledetta ma che, per lui, era innocentemente accogliente. La donna, avvolse le braccia intorno al corpo esile del bambino, facendo scorrere le dita affusolate tra i suoi capelli corvini.
Il figlio, mostrandole uno smagliante sorriso a sua volta, le avvolse le braccia intorno al bacino, nascondendo il volto sorridente sul suo stomaco, lasciando che i capelli corvini gli ricadessero sulle gote, limitandogli la vista. Strusciò la guancia contro il tessuto del suo grembiule, assorbendo tutto il calore che emanava il corpo vivo della donna. Quest'ultima, piegò leggermente le ginocchia, ritrovandosi alla stessa altezza del figlio, e portò una mano sul suo volto, accarezzandolo delicatamente, portandogli una ciocca di capelli scuri dietro l'orecchio, così da riuscir a puntare le iridi nelle sue. Gli sfiorò le gote con le dita ossute, prima di fargli appoggiare la testa tra i suoi seni e stringerlo a sé possessivamente; era consapevole del fatto che la sua misera vita non sarebbe durata a lungo, quindi si limitava a subire tutto silenziosamente, godendosi, ogni giorno di più, il suo amato figlio.
Il corvino scosse appena il capo, come per scacciare quei ricordi malinconici che, in quel momento, avevano iniziato a prendere vita intorno a lui e nella sua psiche. Prese la mano sudata del più piccolo tra le proprie, portandosela sul volto, lasciando che la sua mano morbida iniziasse a sfiorargli gli zigomi che, lentamente, assumevano un colorito leggermente roseo. Il più piccolo, nel frattempo, lo lasciò fare, strabuzzando gli occhi ad ogni suo gesto.
«Ti amo.»
Biascicò, il corvino, tra i denti, stringendo ulteriormente la mano del castano tra le dita, socchiudendo appena le labbra sottili. Il castano, sollevò appena le sopracciglia definite, lasciando che le sue ciglia iniziassero a sfarfallare nell'aria, sbattendo più volte contro le gote che, nel frattempo, erano diventate di un rosso fin troppo acceso, a causa della sorpresa e, soprattutto, dell'imbarazzo.
«Uh, ah! Ti amo anch'io, L-Levi!»
Esclamò sinceramente, abbassando leggermente lo sguardo, per paura di una reazione esageratamente eccessiva da parte del ragazzo davanti a lui che, nel frattempo, aveva rialzato le palpebre, lasciando che un cipiglio confuso, ma allo stesso tempo divertito, prendesse posto sul suo volto. Inclinò leggermente la testa di lato, lasciando andare la mano del ragazzo che, velocemente, la ritirò, appoggiandola sulle proprie cosce coperte dal tessuto scuro della gonna che indossava.
«Ehm, cosa, Eren? Era riferito a mia madre, quel "ti amo". Sei per caso mia madre, tu?»
Borbottò divertito il corvino, appoggiando entrambe le braccia sulle ginocchia piegate; era in quella posizione da forse troppo tempo, infatti le ginocchia gli duolevano; avrebbe voluto sedersi a terra e stendere le gambe, in modo da far riposare le ginocchia che, iniziando a tremolare leggermente, stavano per cedere totalmente. Aveva appoggiato tutto il suo peso su di esse e sulle punte dei suoi piedi, di conseguenza non poteva reggere ancora molto, in quella posizione.
Il più piccolo, riformulando più volte le parole del ragazzo nella mente, spalancò nuovamente le palpebre, abbassando freneticamente il volto che, ormai, era diventato dello stesso colore che ha il sangue appena uscito da un corpo vivente.
«Guarda, sei diventato tutto rosso. Sono sicuro che se sfregiassi, in questo momento, una qualsiasi parte del tuo volto, uscirebbero fiumi di sangue.»
Borbottò il corvino, lasciando che i suoi pensieri vagassero in quelle fantasie, facendogli, di conseguenza, crescere un sorriso spietato sul volto. D'istinto, allungò una mano verso il coltello che era ancora appoggiato sul legno del pavimento. Non ci fece caso, il corvino, di averlo preso; era un semplice istino che faceva parte del suo arduo carattere. Pensare al sangue, ai tagli e al dolore gli avevano fatto avvolgere istintivamente le dita intorno al manico del coltello, facendoglielo impuntare in mano, con la punta rivolta contro il volto spaventato del castano. Si passò una lingua sulle labbra, divertito, chiudendo per un attimo le palpebre.
Il castano, pienamente spaventato, aveva impuntato i palmi delle mani sul pavimento in legno chiaro, iniziando a far pressione di esso, cercando di scivolare il più lontano possibile dal corpo del corvino che, in quel momento, sembrava non riuscisse a rispondere agli impulsi nervosi che il cervello del più grande cercava di trasmettere in esso.
Le braccia del castano, ormai prese del tutto da un frenetico tremolio, cedettero, facendolo sbattere con i gomiti per terra, limitandogli ogni movimento e, di conseguenza, anche di scappare dalle grinfie affilate e omicida del corvino. Quando quest'ultimo sollevò nuovamente le palpebre, lasciando che le sue iridi scure si intravedessero, il più piccolo poté scorgere un piccolo luccichio da omicida illuminargli gli occhi e, successivamente, illuminargli il volto corrucciato in una smorfia divertita. Cosa c'era di divertente? Esattamente nulla. E allora, perché i suoi occhi brillavano? Ecco, a questa domanda, neanche il corvino stesso trovava risposta.
Tutto partì da quando era un piccolo ed ingenuo pargoletto: era piccolo, decisamente, di conseguenza non poteva sapere le conseguenze delle sue azioni e, soprattutto, non avrebbe mai potuto sapere che, a causa di quel piccolo omicidio, avrebbe potuto portare a tale disumano e malato divertimento. Era un bambino, -non poteva avere sopra gli undici anni- e, felicemente, giocava nel parco con i suoi amici che, almeno da quanto gli aveva riferito la madre, non esistevano; anche se, però, lui li vedeva. Ne ricordava ancora il volto, ormai era indelebile nella sua memoria, impresso come un taglio troppo profondo, con il passare del tempo, ti imprime una cicatrice permanente, sfigurandoti una parte del corpo: erano una bambina e un bambino. La bambina era minuta, esile, con la pelle abbastanza scura ma scalfita da tagli che, perennemente, erano lì, non aumentavano e non diminuivano; non sparivano e non risultavano ancora più visibile ad occhio nudo; aveva dei capelli color sangue, legati in due codine basse, ed occhi di un verde quasi inumano. Però, le due iridi non erano illuminati dalla luce che, solitamente, ombreggia nello sguardo di una persona viva; i suoi occhi erano cupi come quando una persona chiude le palpebre per l'ultima volta nella sua vita, inalando il suo ultimo anelito di vita. Ogni giorno, lo stesso camice le copriva il corpo trasandato; un camice bianco con delle macchie di quel liquido cremisi che lo rendevano sudicio; quelle macchie riuscivano a sporcare quel tessuto tenuto -fino ad un momento tragico- pulito ed ordinato.
Il bambino, invece, aveva un corpo leggermente più esile e denutrito del corvino, ed anch'esso era ricoperto di ferite abbastanza gravi; ma, al contrario della bambina, il suo corpo era gremito di lividi violacei, sangue incrostato fuoriuscito da ferite da cui il liquido non riusciva a smettere di sgorgare, e delle piccole macchie violacee causate probabilmente dalla stretta eccessivamente potente delle dita sul suo corpo. Tutta la sua famiglia lo picchiava, ritenendolo inutile; ritenendolo un obbrobrio, la rovina della loro benestante e celebre famiglia. La chioma del bambino era un ammasso di ciuffi biondi che, delicatamente, gli ricadevano sulla fronte e sulle gote, ornamentandogli il volto pallido e
scarno; anche le sue iridi cerulee, proprio come la bambina dagli occhi color giada, non avevano nessuna caratteristica che, solitamente, ha lo sguardo di una persona a cui il cuore pompa sangue, battendo freneticamente. I suoi occhi cerulei erano cupi e tipici di una persona deceduta ormai da tempo. Il suo corpo fragile e smilzo era coperto da un flebile e trasparente camice, proprio come quello della bambina, con la sola differenza che il camice di quest'ultimo non era ricoperto di sangue, ma era imbrattato di fango e altro lerciume che, il corvino, non aveva la benché minima intenzione di ricordare; erano presenti diversi strappi sul camice da cui, a causa di essi, potevi intravedere il corpo pallido che si celava al di sotto. Ai lembi, posti appena sotto le sue ginocchia, il camice era malconcio; totalmente insanguinato e scerpato. Entrambi i bambini non indossavano altro, solo quel malmesso camice che corpiva loro solo il busto, gli arti superiori e le cosce, fino ad appena sotto le rotule. Non indossavano scarpe; non indossavano calze; non indossavano nient'altro, se non quel camice malinconico.
Era un giorno: o meglio, IL giorno. Il giorno del primo omicidio da parte del corvino e il giorno in cui Isabel e Farlan scomparirono, completamente, in un'improvvisa ascesa di nebbia fitta, da cui non potevi intravedere nulla, neanche il tuo corpo stesso. Il corvino, quel giorno, stava felicemente giocando nel parco, rincorrendo il suo amico biondo mentre, la rossa, seduta su una panchina, dondolava le gambe all'aria, osservando i due suoi migliori amici. Il camice bianco di Farlan svolazzava nell'aria, così come anche i capelli lunghi e scuri del corvino che, dietro al bambino, cercava in tutti i modi di raggiungerlo e stringerlo tra le braccia esili in un abbraccio soffocante.
Proprio nel momento in cui era riuscito ad afferrare il camice del biondo difronte a lui, sentì una risata divertita; o meglio, una risata di scherno, una derisione. Iniziò a guardarsi freneticamente intorno, prendendo a grattarsi i polsi a causa del timore e della paura; aveva paura, perché? Perché, quella risata, gli aveva scalfito, in qualche modo, una parte del cervello, trapassandogli insistentemente i timpani. Sembrava quasi che quel suono fosse sbattuto per terra, con forza, per poi innalzarsi in una grossa ombra, posizionarsi alle spalle del corvino e riprendere a ridere, iniziando ad accarezzargli delicatamente le vertebre con i polpastrelli gelidi, provocandogli un brivido partito dal collo, lungo la schiena, fino ad arrivare e fermarsi appena sopra le natiche. Si voltò verso il corpo da cui proveniva la risata; lo osservò insistentemente, avvicinandosi a piccoli passi, quasi spaventato. Chi aveva riso di lui? Non ne aveva la più pallida idea, ma qualcosa gli disse che quella persona rappresentava un pericolo. Intanto, Farlan e Isabel avevano preso a svolazzargli intorno, passandogli prima difronte, e poi alle spalle, iniziando così a trottorellare intorno al corvino, rinchiudendolo quasi in un cerchio, mentre questo si avvicinava al corpo chinato della persona che, insistentemente, continuava a ridere, senza dar cenno di voler smettere. I due bambini che, nel frattempo, avevano iniziato a saltellare, iniziarono ad incitare il corvino di esternare in modo pratico le sue fantasie.
«Avanti, Levi, sappiamo a cosa stai pensando: fallo! Diventerai uno di noi, ed io e Farlan non potremmo essere più felici di questo! Siamo un trio completo, no? Ti piacerebbe essere proprio come noi, ed indossare questo semplice camice senza provare il minimo brivido di freddo? Dai, Levi, fallo per me e Farlan.»
La rossa, posizionandosi alle spalle del corvino e, appoggiandogli le mani gelide sulle spalle, avvicinò le labbra al suo orecchio, sussurrando incitamenti negativi. Il suo fiato era gelido, così come anche la sua voce che risultava quasi sempre fredda, priva di qualsiasi emozioni e ovattata, lontana chilometri; così come tutto il corpo della rossa, perennemente freddo come un cadavere, ma, in quel momento, il corvino decise di non far ragionare il cervello e seguire semplicemente gli ordini degli amici e, soprattutto, il suo istinto. Il biondo che, nel frattempo, osservava la scena parandosi a volte davanti il corvino, si portò una mano sotto il camice, alzandolo leggermente, mettendo in mostra il suo corpo cereo. Da esso, estrasse un coltello affilato che, dapprima, era affondato nel suo basso ventre, all'altezza del fianco. Non uscì neanche una goccia di sangue. Indifferentemente da come si potrebbe pensare, il coltello era lucido, quasi come se fosse appena stato lavato e lucidato dieci volte di seguito. Lo porse al corvino, appoggiandoglielo sul palmo della mano; successivamente, avvolse le dita intorno alla sua mano, stringendo appena, facendogli così stringere la presa intorno al manico del coltello.
Il corpo del corvino non rispondeva più agli impulsi nervosi che il suo cervello cercava di mandargli, cercando di farlo risvegliare da quello stato di trance in cui, ormai, era stato intrappolato. Ormai, era troppo vicino al corpo della persona che prima lo derideva per poter tornare indietro; nel frattempo, il bambino che, spaventato, aveva smesso di ridere, cercava di muoversi, cercando anche solo di rotolare leggermente più dietro, ma con scarsi risultati. Era con le ginocchia impuntate con prepotenza sul terreno, immobili, e con le braccia unite dietro la schiena; non riusciva a muovere il corpo, era come pietrificato. Ma, non era così: Isabel e Farlan, svolazzati alle sue spalle, gli mantenevano il corpo fermo, incapace di fargli compiere qualsiasi movimento, mentre aspettavano che il corvino desse il suo corpo mortale.
«Sai, non mi piace quando le persone ridono di me, mi dà davvero fastidio.»
Sibilò il corvino con una calma agghiacciante, facendo schioccare la lingua sotto il palato, rigirandosi il coltello tra le dita magre, portando la lama di quest'ultimo sulle labbra, per poi passarci delicatamente la lingua sopra, inumidendolo, facendo, ovviamente, attenzione a non tagliarsi. Lo sguardo del bambino impaurito davanti a lui mutò per un secondo in disgusto, facendogli contorcere il viso in una smorfia che, però, venne smorzata in un'altra smorfia, questa volta di terrore. La lama, dolcemente, si era appoggiata sulla sua guancia, e gliela accarezzava, con una lentezza terrificante e mortale.
«E non mi piace neanche quando mi guardano disgustati; preferisco quando le persone mi guardano terrorizzati, prima che il loro sangue inizi a schizzarmi sul volto e sui vestiti, imbrattandomi del loro lerciume, quindi...»
Sussurrò, ancora, abbassandosi all'altezza del bambino, iniziandogli a soffiare una serie di ripetitivi "quindi" sul volto. Sollevò le labbra sottili in un sorriso crudele, prima di affondare lentamente, ma con potenza, la lama del coltello nel suo volto, iniziandogli a tagliare dalla guancia, allungando il taglio netto fino al collo, concentrandosi specialmente in quel punto. Fece tutto con una lentezza tale da provocare più dolore nel corpo del bambino che, man mano, perdeva sempre più vitalità, iniziando ad accasciarsi inerme sul pavimento. Il silenzio agghiacciante che aleggiava in quel luogo, fu smorzato da un urlo atroce. Un urlo raccapricciante. Un urlo di dolore. Un urlo che, solo a sentirlo, ti faceva accapponare la pelle, ma che, al corvino, fece solo nascere un sorriso malato, seguito da una risata isterica che, solo a sentirla, ti faceva stringere le dita intorno ai capelli e impazzire totalmente, iniziando ad echeggiarti nel cervello insistentemente.
«E quindi, lurido pezzo di merda, muori per me!»
Quelle furono le ultime parole che il corvino pronunciò, e, ovviamente, le ultime parole che il corpo, ormai inerme e sanguinante, sotto di lui riuscì ad udire prima di lasciar che il buio della morte trascinasse via la sua anima pura. Il corvino, si posizionò sopra il cadavere, iniziando ad affondare ripetutamente la lama sul suo volto, rendendolo ormai irriconoscibile. Dai suoi occhi sgorgava sangue che, velocemente, scorse lungo le guance, andandosi ad infrangere con il sangue che, contemporaneamente, usciva da esse e dalla bocca, seguito da rivoli di saliva.
«Uno! Due! Tre! Quattro! Cinque! Sei! Sette!»
Il corvino iniziò a cantilenare i numeri, e ad ogni coltellata che infliggeva, ne aggiungeva uno, mantenendo quella melodia raccapricciante che aveva ideato. Il sangue del corpo -ormai totalmente privo di vita e, soprattutto, privo di un volto- gli era schizzato in faccia e, lentamente, quasi come se stesse accarezzando la sua pelle delicata, scese lungo il collo, infilandosi sotto la maglia, anch'essa imbrattata di sangue, sporcandogli il torace.
Notando che, ormai, era fuoriuscito tutto il sangue da quel piccolo corpo, sollevò le ginocchia che, dapprima, erano immerse nel lago di sangue che aveva creato. Si passò una mano sul volto, leccando appena il sangue che gocciolava da esso, cercando di pulire invano il liquido cremisi che gli aveva imbrattato l'intero corpo. Le sue papille gustative vennero inondate dal sapore metallico che emanava il sangue; trattenne una smorfia disgustata al sapore che gli era rimasto in bocca e, senza pensarci due volte, leccò via il sangue che, lentamente, gli stava scivolando sulle labbra. Nonostante gli facesse schifo il retrogusto che il liquido gli rilasciava in gola, provava piacere nel leccare quello che era stata la sua vittoria e la sua rinascita. Probabilmente, era quello il sapore della vittoria; quel sapore che, in gola, non ti lascia altro che sapore ferreo e caldo, quasi come se tu stessi bevendo una zuppa calda in cui, dentro, sono stati mischiati dei cucchiai di ferro liquido. Si portò la lama lercia del coltello sulle labbra, leccandone via qualsiasi residuo di sangue, rendendolo quasi lucido. Sorrise di gusto, prima di puntare lo sguardo sui propri vestiti e trattenere appena una smorfia disgustata, mentre dei rivoli di saliva mischiata al sangue presero a scivolargli lungo il mento, sporcandogli ulteriormente il volto lurido.
«Tsk, guarda qui che lerciume! Il sangue di questo stronzetto mi ha imbrattato totalmente.»
Esclamò, quasi incazzato, rivolgendo, poi, uno sguardo al cadavere esile che gli sfiorava le punte delle scarpe. Lo osservò meglio e notò con piacere di averlo sfigurato: almeno, così, era riuscito a rimuovergli quel perenne sorriso dal volto, così come era riuscito a rimuovergli gli occhi dalle cavità orbitali. Glieli aveva appoggiati affianco, non sia mai gli fossero serviti! Divertito da quel pensiero malsano, sollevò le iridi scure, rivolgendo uno sguardo intorno a sé, notando, solo allora, di esser circondato da una nebbia fitta. Cos'era? Con le iridi, cercò disperatamente quelle verdi della sua compagna rossa, guardandosi ansiosamente intorno. Dov'erano andati Isabel e Farlan? Avevano visto ciò che aveva creato, lui stesso, con le sue mani e un semplice coltello? Perché non erano lì, con lui? Lo avevano abbandonato? Ma non era possibile, Isabel gli aveva detto che sarebbe diventato uno di loro definitivamente, se avesse ucciso quel bambino che, probabilmente, aveva la loro stessa età.
Udì la risata isterica della sua compagna rossa echeggiare in lontananza e, velocemente, si voltò, puntando lo sguardo dalla fonte del suono. Adorava quella risata, gli donava così tanta allegria, ma, in quel momento, non faceva altro che fomentare il suo timore.
Ed eccolo di nuovo, il suono della risata, ma questa volta più vicino, proprio alle sue spalle. Si voltò velocemente e non riuscendo a scorgere nessuno, lasciò che un cipiglio confuso e deluso gli contorcesse il volto corrucciato. Di nuovo il suono, un'altra volta alle sue spalle. Alla sua risata, si aggiunsero le urla agghiaccianti del suo amico biondo, Farlan. Le risate e le urla iniziarono a diventare molteplici, e, mentre prima le urla erano una ogni due, o tre secondi, mutarono fino a diventare una dopo l'altra, a raffica. Il corvino continuò ad oscillare freneticamente le iridi intorno a sé, mentre le urla e le risate iniziarono ad echeggiargli nella mente, rimbombandogli insistentemente nelle orecchie, fino a fargli credere di star per impazzire. Una mano gelida gli sfiorò il dorso della mano, accarezzandolo delicatamente; era un tocco delicato e leggero, il tocco del suo compagno biondo. Cercò di urlare il suo nome, ma un groppo alla gola glielo impedì, facendogli serrare con forza le labbra.
Sentì un corpo attaccarsi al suo, da dietro, dopo avergli avvolto il collo con le braccia ossute, mentre il tocco gelido gli aveva sfilato il coltello dalle dita, facendolo sbattere al suolo, provocando un echeggio del suono metallico.
«Perdonaci, Levi...»
Sentì biascicare alle sue spalle, proprio vicino al suo orecchio. Era la voce dolce e flebile della sua compagna rossa, ne era sicuro, l'avrebbe riconosciuta tra tutte. Deglutì, voltandosi lentamente, preparandosi psicologicamente a non trovare nessuno. Ma, con suo stupore, riuscì a scorgere due figure, vestite di un camice bianco, camminare poco distante da lui: erano di spalle, ma riusciva a scorgere i capelli rossi della bambina e i capelli biondi del bambino: erano loro. Iniziò a correre nella loro direzione, allungando una mano come raggiungerli, sfiorando le loro sagome con le dita ossute. Ovviamente era solo un'illusione, era troppo distante per poterli anche solo sfiorare, anche solo per sentire il loro respiro affannato infrangersi nell'aria.
Era pronto a diventare in modo effettivo uno di loro; era pronto ad essere integrato nel loro gruppo e, tra l'altro, non vedeva l'ora di riferirlo. Però, una domanda gli sorse spontanea: perché non lo stavano aspettando? Che si fossero dimenticati di lui? Cercò di ignorare quei pensieri che, secondo lui, erano negativi e continuò a correre, notando le figure sempre più vicine. Improvvisamente, gli iniziarono a duolere atrocemente le ginocchia e, a causa di tale dolore, sbatté con il corpo sul suolo, innalzando un leggero strato di polvere che andò a posarsi leggiadro sul suo corpo, ormai, sdraiato in posizione fetale. Le sue ginocchia erano diventate una calamita, ed il terreno era il ferro che le attirava a sé, possessivamente.
Alzò una mano al cielo, notando che, nel cielo, erano impressi i volti scarni dei suoi due compagni e, delicatamente, sfiorò le figure con le dita, ovviamente senza toccare nulla. Un sorriso delicato gli sfiorò le labbra, andando a posizionarsi su di esse, mentre delle lacrime gli rigarono le gote, sciogliendo nuovamente il sangue di quel bambino che, col passare dei minuti, si era seccato e, di conseguenza, incrostato. Il suo volto diventò un miscuglio di sangue e lacrime salate, disperate.
«Fratelli...»
Mormorò appena in modo udibile, socchiudendo le palpebre che, improvvisamente, erano diventate pesanti, così come le membra del suo corpo. Ed infine, buio. Sentì qualcuno, o qualcosa, avvolgergli le braccia intorno al corpo esile, accarezzargli delicatamente i capelli scuri che ricadevano appena sulle spalle, prenderlo in braccio e farlo inoltrare in quel lugubre buio di cui, in quel momento, non provava timore.

mi scuso immensamente con il ritardo, ovviamente.
comunque, so che nel capitolo non sono presenti, effettivamente, scene Ereri, ma avevo intenzione di introdurre la storia con qualcosa di fantastico e, spero, abbastanza pauroso. Questo è una parte del passato di Levi che nel omonimo manga non è disegnata, di conseguenza è rigorosamente una cosa che ha partorito la mia mente malata.
bene, spero che questo capitolo vi piaccia almeno la metà di quanto sia piaciuto, a me, scriverlo.

Killing Stalking. _Ereri._Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora