1. a sunny day in baltimora

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Baltimora, 2017

C'è il sole.

C'è il sole ed è una cosa buffa, perché non pensavo che il mio primo nuovo giorno sarebbe iniziato nello stesso modo del mio ultimo.

Ha piovuto per ben due settimane ma, proprio oggi, ha deciso di uscire il sole.

È quasi ironico che la vita voglia prendermi in giro per la seconda volta in così poco tempo.

Le mie mani scivolano lente fra le mie ciocche castane, che annodo con estrema cura in una treccia laterale.

Prendo l'elastico che tenevo fra i denti e poi faccio un piccolo nodo alla base della treccia, sospirando.

Faccio un passo indietro, così da far rientrare perfettamente il mio riflesso nel perimetro dello specchio.

Inclino il viso, osservandomi con attenzione, abbassando le maniche del mio maglione grigio e sistemando il colletto, così da nascondere le piccole cicatrici rosee che ho sul petto e le braccia.

Siamo in primavera, quindi inizia a far caldo, eppure io indosso dei jeans e un maglioncino a maniche lunghe: so che in questo modo attirerò di più l'attenzione ma non mi importa, mi basta avere la maggior parte della mia pelle coperta.

Avvicino il viso allo specchio, passando le mani sopra il mio viso, privo di trucco ad eccezione di uno strato di mascara, e poi abbasso lo sguardo sul mio collo, lasciato scoperto dalla treccia.

Muovo appena la testa verso il lato sinistro, e subito lo vedo: un cerchio rosso segmentato e profondo.

Mi hanno dovuto mettere otto punti solo per questa ferita: la più grave fra le altre.

Le cose che dicono sulla riabilitazione sono delle grandi stronzate.

Ho passato una settimana di prognosi riservata e due di riabilitazione, frequentando ogni giorno psicologi e medici che non facevano altro che dirmi le solite cose.

Dicevano che il peggio è passato, che io sono forte e che, dopo questo periodo di abbattimento morale, sarei tornata la stessa Megan di prima e avrei dimenticato tutto.

Per l'appunto: stronzate.

Perché il peggio non è stato essere aggredita da un mostro e aver rischiato la vita, no, quella è una passeggiata in confronto al dovermi specchiare ogni giorno e vedere queste cicatrici sapendo che non se ne andranno mai, sapendo che non appena uscirò là fuori le persone mi guarderanno e proveranno pietà per me.

Pietà sì, perché non si può provare altro per una come me: una abbandonata dalla famiglia, con un fratello morto e vittima di violenza.

Dicono che col tempo si dimentica, ma è una sciocchezza.

Col tempo puoi accettarlo, imparare a conviverci, ma non puoi dimenticare, e come potrei? Mi basta vedere il sole per ricordare.

E mi chiedono di essere forte, di scacciare i miei demoni, che non sono altro che quei due occhi di tenebra che mi hanno strappato tutto ciò che avevo di più caro: la vita, la felicità, la speranza.

Non credo più in nulla, figurarsi in me stessa e nella mia forza.

Non esiste più niente, se non il vuoto più totale in cui mi perdo in ogni momento, sperando sempre di affogarmici dentro.

Sento suonare un clacson dall'esterno e subito mi slego velocemente i capelli, così da rimediare alla pessima idea che avevo di mettere allo scoperto il peggiore dei trofei simbolo della mia lotta contro la morte.

Afferro lo zaino e corro fuori, salendo sull'auto famigliare blu di Sophie, che subito mi bacia una guancia, felice.

"Piccola Meg, come va?" Chiede, mettendo in moto.

Cuore di cenereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora