From ashes it came

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Aveva ormai scordato da quanto tempo stesse fuggendo dai suoi inseguitori e ormai non c'era più nessuno alle sue spalle. Aveva sfiancato il cavallo che era morto molte leghe più indietro, al di là del largo fiume che aveva attraversato a nuoto. Già a quel punto la squadraccia che gli veniva dietro per metterlo ai ferri aveva preferito proseguire su altri sentieri. Non c'era modo di sapere se quei porci al soldo della Gilda dei Bianchi sarebbero ricomparsi.

Falange, l'avevano chiamato. Il suo nome di battaglia. Conoscevano esattamente la sua identità, non c'erano dubbi. Chi avesse parlato del suo segreto, lui non poteva saperlo e chi avesse visto quella cosa che aveva prontamente nascosto, era altrettanto un mistero.

Istintivamente la sua mano grande e coriacea si sollevò e andò a stuzzicare la cicatrice sotto la cotta di metallo sul petto, proprio sul cuore. I vestiti stracciati non costituivano un gran riparo dal freddo, ma erano migliori della nuda pelle, si disse sentendo la lana rovinata e il cuoio grattare sull'epidermide.

Proseguì a piedi, dimentico del viaggio che si era lasciato dietro le spalle, inconsapevole di ciò che avrebbe trovato davanti a sé. Il sentiero curvava e risaliva un pendio da cui s'intravedevano, oltre i rovi e i tronchi grigi delle piante morte, mura possenti ridotte a macerie. Mattoni e pietre spaccati, rampicanti avevano divelto le fondamenta. Ovunque c'erano rovine di quella che doveva essere stata una città dalle considerevoli dimensioni, della cui magnificenza non restava che il ricordo e l'infinita desolazione. Una nebbia si alzava dall'altura, celando ciò che stava oltre i resti della murata e dei bastioni semidistrutti.

C'era silenzio nell'aria. Troppo silenzio, rifletté Falange. Il silenzio non era mai buon segno. Anni trascorsi a capo di un manipolo di mercenari al soldo del migliore offerente gliel'avevano insegnato. Era successo anche l'ultima volta, nella locanda, prima che i ceffi della Gilda assaltassero la baracca di quell'oste obeso e troppo dedito al fiasco di vino per catturare lui e venderlo per un pugno di monete d'argento a vecchi incartapecoriti, seguaci di un culto ormai morto e sepolto.

Non l'avrebbero mai avuto vivo, si ripeté per l'ennesima volta. La sua fine sarebbe giunta su un campo di battaglia: il suo corpo trafitto da frecce, da una lancia o dalla lama di una spada. Non sarebbe certo rimasto a marcire dentro una prigione in attesa che qualcuno venisse a recuperare il suo cadavere da ardere.

Di nuovo la mano destra s'infilò sotto la cotta e toccò il petto sopra il cuore. Era freddo? No, impossibile. Era tutta una suggestione della sua mente. Qualcosa pareva lo stesse rodendo dall'interno, come se lo svuotasse. Qualcosa lo costringeva a pensare certe cose, a fare certi sogni e a smarrire una parte di sé, un granello alla volta.

No, maledizione! Imprecò silenziosamente. Falange non sarebbe diventato un folle burattino di una mano invisibile.

Mentre avanzava con lentezza con le gambe che a stento lo reggevano, udì qualcosa scricchiolare alle sue spalle. Un ramo secco, si disse, ma quel rumore tanto fine riecheggiò sul fianco dell'altura come fosse stata l'esplosione di una bomba incendiaria. Come un lampo si volse e osservò alle spalle la macchia da cui era uscito barcollante poco prima. Non aveva trovato nulla, salvo impronte irriconoscibili di qualche animale che tuttavia non aveva incontrato. Niente orme di esseri umani. Doveva essere un luogo disabitato, quello. L'ideale per un fuggiasco come lui, eppure sapere che qualcuno poteva stargli ancora alle calcagna, magari per tagliargli la gola nel sonno come un ladro o un bandito e rubargli i suoi pochi averi e le armi...

In un gesto automatico, Falange allungò la mano sinistra dietro la schiena, sganciò lo scudo metallico triangolare e se lo infilò sul braccio sinistro. Fece scivolare fuori dal suo supporto il randello rinforzato con la destra e notò che i riflessi dell'alba grigia mostravano un lucore quasi spettrale sulla titanite nera e lucida di sangue dei molti nemici uccisi.

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