Si gelava, quel giorno a Londra.
Me ne stavo stretto nella mia fedele giacca di pelle, forse un po' troppo leggera per una giornata di inizio novembre .
Quel giorno le strade sembravano più trafficate del solito e, la metropoli, sotto le prime luci del mattino, sembrava solo un grande ammasso di colori e forme indefinite.
La pioggia fitta e pungente sembrava trafiggere il pesante maglione color cachi che portavo, i jeans- ormai fradici -e per fino gli amati anfibi verde acido, immancabili nel mio guardaroba.
Camminavo, semplicemente camminavo, perso nei miei pensieri e in un infinito ammasso di gente: confuso, perso, furioso, ferito...ma al contempo così freddo, apatico.
La mia vita stava andando a rotoli, mi stava scivolando dalle mani e si stava pian piano sfracellando a terra. Ma, nonostante tutto, l'unica cosa che potevo fare era camminare.
Lanciai una rapida occhiata al cellulare che tenevo tra le mani, intendo a vibrare ed emettere una fischiettante melodia.
Era un messaggio di Gemma, mia sorella maggiore, che mi avvisava che si sarebbe dovuta recare ad Holmes Chapel per delle commissioni.
Prima la mia famiglia possedeva un modesto appartamento nell'estrema periferia di quel paesino, immerso tra verdi campi e fitti boschi.
Non era di certo una grande e costosa villa, ma a noi andava bene così. Una piccola casa per tre persone, che nonostante tutto mi pareva immensa. Così vuota, dominata dalle urla soppresse di chi stava morendo dentro; in quella casa regnava sempre un agghiacciante silenzio e, se tendevi bene l'orecchio , potevi percepire i lunghi artigli del panico e della paura scalfire i vecchi muri.
Tutto era gelido in quella casa, come se una ragnatela avesse ricoperto tutto sei anni prima e l'avesse lasciato così, pietrificato.
D'un tratto smise di piovere.
Sorrisi appena, passandomi una mano tra i capelli scompigliati.
Gemma si dava sempre così tanto da fare per la nostra famiglia. Avrei voluto essere come lei, sempre così premurosa e dolce mei confronti di mia madre, disposta a tutto pur di renderla felice. Ed invece io ero Harry, soltanto Harry, un Harry che pian piano stava scomparendo con lei.
Esausto mi affrettai a sedersi sulla prima panchina che mi si porse dinnanzi.
Ispirai a fondo, percependo la gelida aria londinese farsi spazio nei miei polmoni.
Ero distrutto, non ero nemmeno più un uomo: solamente un esule ammasso di muscoli ed ossa che veniva sposato da una parte all'altra.
Ero un fantasma.
«Tutto bene? Non hai una bella cera» una ragazza dagli strambi capelli bianchi mi si sedette a fianco.
«Sto b-bene. Sono solo un po' stanco» le sorrisi tristemente.
«Uhm, d'accordo. Come vuoi» si sistemò meglio sulla panchina tenendo lo sguardo basso, intenta a giocherellare con una foglia secca posatasi sulle sue sneakers.
Non ricordo quanto tempo fosse passato, ma abbastanza da permettermi di scorgere il sole illuminare dolcemente gli alti grattacieli, per poi ricoprire ogni cosa di una luce aurea.
«Sono Lottie, Lottie Tomlinson. E tu sembri così triste»
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Wintercearing || Larry Stylinson
Fanficwintercearing (inglese) profonda tristezza paragonabile al gelo dell'inverno. " E anche quando non saprai più nulla di me, Louis, quando per la tua stanca ed anziana memoria faticherà a ricordare i lineamenti del mio viso e la mia voce che tanto ad...