Capitolo 2

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La mattina seguente mi alzai frastornata, come se non avessi realmente dormito.  La notte sembrava essere passata in un lampo, non lasciandomi possibilità di riposare. Mi misi seduta e mi stropicciai gli occhi, tentando di recuperare la vista appannata dalla stanchezza. Voltai leggermente la testa con il respiro pesante, tentando di metabolizzare le informazioni intorno a me. Dalla sveglia sul comodino capii che era particolarmente presto, ancora doveva suonare l'allarme. Sbuffai spazientita, massaggiandomi le tempie per il leggero mal di testa che sentivo. Non sarei mai riuscita ad addormentarmi di nuovo in quelle condizioni, così piena di pensieri e preoccupazioni; decisi quindi di andare in cucina a fare colazione.

Passai per il corridoio con passo felpato, tentando di non far rumore per non svegliare i ragazzi che dormivano. Erano soliti tenere la porta aperta durante la notte, e in più avevano anche il sonno leggero, quindi svegliarsi senza volerlo era facilissimo. Mi diressi in cucina e trovai mia madre, nell'angolo della stanza dove era posizionato il piano cottura. Era gobba sui fornelli, e concentrata su quello che stava facendo. Mi arrivò alle narici l'odore inconfondibile delle uova, e al suo lato vidi il tostapane che stava abbrustolendo i toast.

Non avrei scambiato l'olfatto con nessun'altro dei sensi. Gli odori mi riportavano a ricordi passati, mi facevano viaggiare con la mente e tornare a tempi lontani, che normalmente avrei anche stentato a rammentare. Le uova con i toast mi ricordavano i momenti più frenetici, ma anche quelli più eccitanti. Era un piatto semplice e veloce, e mia madre ci impiegava veramente poco tempo per cucinarlo. Lo preparava sempre quando eravamo in procinto di partire per un viaggio o quando capitava che la mattina ci alzassimo tutti tardi e dovessimo correre. Ma chiaramente, quel giorno, il motivo non era nessuno dei due. Tutto in lei manifestava malessere. La schiena ricurva, piegata su se stessa quasi come in un bozzolo, i capelli disordinatamente sistemati in una crocchia. Erano tratti abbastanza insoliti in una persona come lei, spesso solare e ordinata. Mi avvicinai facendo attenzione al peso dei miei piedi, anche se la sua piccola vita, e appoggiai il volto alla sua schiena con delicatezza. Affondai il naso in quel morbido pigiama, che odorava di olio e di uova. La strinsi forte a me, e rimasi così per qualche istante. Non so cosa stessi cercando di ottenere esattamente, ma speravo di farla sentire meglio, sollevata. Avrei voluto fosse così semplice. «Dai Camila, staccati» non si mosse di un millimetro; sentii solo la sua voce apatica arrivarmi alle orecchie. Ebbi un tuffo al cuore. Gli occhi si riempirono di lacrime, che riuscii a non far uscire sbattendo velocemente le palpebre. Allentai la presa, ma non mi staccai del tutto da lei. Rimasi aggrappata alla sua maglietta, come se fossi una bambina piccola e non volessi lasciarla andare. Avevo paura che l'avrei persa per sempre, che se l'avessi mollata sarebbe caduta e non si sarebbe più rialzata. Deglutii:«Sai che noi ci siamo per te, giusto?» le guardai la nuca, sperando si sarebbe girata per guardarmi negli occhi. Avrei voluto leggere le emozioni dentro di lei, farle capire che anche noi stavamo male. Ma da parte sua non ci fu nessuna reazione. Silenzio, vuoto. Diede una scossa alla padella per controllare che le uova fossero pronte, e per farle staccare dal fondo. «Muoviti, farai tardi» furono le uniche parole che mi disse. Il tono secco mi fece desistere. Buttai tutta l'aria che fino a quel momento avevo trattenuto, e mollai la presa.

Mi accorsi a malapena che fosse il momento di scendere dalla macchina. Ero talmente concentrata sui miei pensieri che se mio padre non mi avesse richiamato all'attenzione, non me ne sarei accorta. «È ora, ragazzi» esordì allegramente dopo aver accostato. Girò il busto verso di me, dando una breve occhiata anche a Sam, seduto sui sedili posteriori. Disse:«Siete pronti?» Aveva intenzione di risollevarci il morale, ci provava sempre nelle situazioni peggiori. Era uno dei suoi tratti che apprezzavo e che, contemporaneamente, mi davano più fastidio. «A tornare in quella merda? Certo che sono pronto» ancora una volta, le affermazioni aggressive di Sam tagliarono l'aria come lame. Fece un sorriso palesemente falso e, senza darci nemmeno il tempo di guardarlo, scese dalla macchina e si incamminò a passo celere verso l'entrata della scuola. Sentii mio padre lanciare un sospiro e borbottare qualcosa. Lo guardai con compassione; doveva essere sfinito, molto più di quanto volesse nascondere col suo comportamento fiero e allegro. «Starà bene» fu la prima cosa che mi venne naturale dire. Scosse la testa in segno d'assenso, ma non mi parve tanto convinto. Aprii la portiera e scesi anch'io dalla macchina, pronta a ricominciare un nuovo anno scolastico. Rimasi per un attimo in quel limbo, tra la macchina e l'entrata della scuola. La calca di persone in cortile era spaventosa. Lo era sempre, ogni anno. Mi veniva la nausea a guardare tutte quelle persone lì riunite: sembravano tutti così senza pensieri. Grandi gruppi di ragazzi e ragazze che scherzavano, chiacchieravano e urlavano. Sembravano tutti così spensierati e allegri.

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