Prologo

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«Avevi detto che questo era un posto sicuro!»
«Non c'è più alcun posto sicuro, Monique. Non lasciarti prendere dal panico.» mio padre mantenne la calma, poggiando le mani sulle spalle di mia madre, che si rilassarono subito al di sotto del suo tocco.
«Mi dispiace, so che non è colpa tua.» ammise lei, rilasciando un sospiro.
Io non emisi alcun fiato.
Stetti ferma nell'angolo della stanza che aveva fatto da casa negli ultimi due mesi, stringendo la mano di Gilbert, nella stravagante speranza che non ci avrebbero trovati.
Ma le speranze, nella gran parte delle volte, vengono frantumate.
«Aprite!» una voce forte tuonò nell'edificio, susseguita da forti colpi sulla porta.
«Joseph, sono qui» realizzò mia madre, mentre mio padre la intimava a non parlare, accennandole un sorriso per tranquillizzarla.
Avanzò verso la porta, aprendola senza esitare: in ogni caso, farlo, sarebbe stato inutile.
«Salve, in che modo possiamo esservi utili?» mio padre mostrò un sorriso accogliente alla figura dinanzi a lui, che non riuscivamo ancora a intravedere.
«Spostati, ebreo. Risparmiaci le tue prese per il culo se non vuoi che ti faccia saltare il cervello.» la stessa voce di prima, la riconobbi.
Un uomo con la divisa militare tedesca scostò bruscamente mio padre per entrare, seguito da altri due.
Sì guardò intorno, esaminò mia madre, poi me ed infine Gilbert, che teneva strette le mie mani, per trarne sicurezza ed infonderne a me al contempo.
«Consegnateci tutto ciò che possedete di valore e seguiteci, senza fare storie.» ordinò, prima di fare cenno agli altri due perché si assicurassero che seguissimo gli ordini.
Per qualche istante sembrò quasi come se stessi osservando il tutto dall'esterno, le voci arrivavano ovattate alle mie orecchie e le immagini scorrevano veloci, fin quando una voce non risuonò fin troppo vicina.
«Cosa?» sussultai, rendendomi conto che uno dei due si era avvicinato a me, chinandosi appena da potermi guardare negli occhi.
«Hai sentito ciò che ho detto? Dove si trova la tua camera? Devi consegnarmi tutto ciò che hai di valore.»
«Scusi.» dissi, annuendo. lasciai le mani di Gilbert, sussurrandogli che sarei tornata subito, mentre mi dirigevo nella mia stanza.
Non possedevo molto, se non alcuni risparmi e qualche gioiello ricevuto in regalo alla mia nascita.
La gran parte dei nostri averi lì avevamo lasciati nella nostra effettiva casa, con la speranza che un giorno, vi saremo tornati.
L'unica cosa di valore, sotto il punto di vista affettivo, era la catenina che portavo al collo: un regalo dalla mia amata nonna materna, ricevuto al mio tredicesimo compleanno.
Il soldato nazista chiuse la porta alle sue spalle, rilasciando un sospiro.
«Fa presto, non farmi perdere tempo.» disse, mentre frugavo tra i cassetti per prendere tutto.
Le mie mani tremanti rendevano il tutto più difficile di quanto già non fosse.
Consegnai tutto in un sacchetto, tranne la collana che portavo al collo.
La strinsi nella mia mano, sollevando lo sguardo verso quello del soldato.
«Questa non posso darvela. Per piacere, è importante.» non volevo crollare, ne tantomeno mostrare debolezza, ma nel supplicarlo i miei occhi divennero inevitabilmente lucidi.
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, osservandomi stranito per qualche secondo.
«Sai che non sono io a decidere, vero? Anche se te la facessi tenere, sarebbe il mio superiore a fartela togliere, e non sarebbe certo gentile quanto me.» era calmo, e mi chiedevo come facesse ad esserlo data la situazione.
«Non posso proprio separarmene, ho fatto una promessa.» stavolta piagnucolai, facendogli roteare gli occhi al cielo.
«Dannazione, dalla a me.» disse, porgendomi il palmo della sua mano. Lo osservai titubante, poco fiduciosa nel fatto che me l'avrebbe ridata.
«Dalla a me ho detto! Credi di avere altra scelta, ragazzina?» stavolta sembrava irritato.
Mi girò di spalle, scostando in avanti i miei lunghi capelli biondi per poter slacciare la catenina dal mio collo, per poi infilarsela nella tasca della giacca.
Mi lanciò un'occhiataccia tale che non potei far altro che abbassare lo sguardo. «Qui ho finito.» disse, prendendomi per un braccio e riconducendomi all'entrata, dove i miei genitori e Gilbert si tenevano per mano.
Mio padre fece cenno di raggiungerli. «Vieni qui, andiamo in un posto per un po'.» disse, causando una risata beffarda da parte del comandante.
Era dolce da parte sua volerci proteggere dalla realtà dei fatti, ma sia io che Gilbert eravamo già abbastanza grandi da sapere quale sarebbe stata la nostra metà e cosa ci avrebbe aspettati una volta giunti.
ma sorrisi. sorrisi perché potessero pensare che non avessi paura, sorrisi perché Gilbert non ne avesse, e lasciai che ci conducessero al carro che ci avrebbe portati a destinazione.
Probabilmente fu un lungo viaggio, non saprei giudicare in realtà, poiché dormì quasi per l'intera durata.
All'interno vi erano poche altre famiglie, ed i due soldati che avevano fatto irruzione assieme al comandante.
Quest'ultimo, invece, sedeva affianco al conducente.
A svegliarmi, giunti sul luogo, fu qualcuno che prese a scuotermi.
«Ragazzina, siamo arrivati. Piantala di starmi addosso.» disse, lasciandomi confusa per qualche istante.
Qualche minuto dopo, mi resi conto di aver dormito sulla spalla destra del soldato che aveva preso i miei averi, per l'intero tragitto.
«Mi dispiace.» ammisi, tremendamente imbarazzata. Probabilmente le mie goti dovettero colorarsi di rosso, altrimenti non si spiegava l'espressione divertita del moro.
Scesi dal carro, venendo spinta giù con poca delicatezza da un altro.
Quel posto sembrava essere tutto tranne che accogliente, ma nonostante ciò, nell'incontrare lo sguardo di mio fratello, sorrisi ampiamente: talvolta, l'immaginazione, è l'unica via di fuga.
E sia io che Gilbert, di immaginazione, ne avevamo abbastanza.
«Come ti chiami? Nome, cognome, anni, categoria.» chiese un uomo, posizionandosi dinanzi a me, con in mano un elenco.
Lo osservai da capo a piedi, riconoscendo la medesima divisa dei soldati nazisti.
Mi guardai attorno: stavano separando le famiglie giunte prima di noi, probabilmente avrebbero fatto lo stesso. Risposi in fretta, prima di indietreggiare alla ricerca dei miei, che avevo perso di vista insieme a Gilbert.
«Nevèa Romanov, diciassette anni. sono ebrea.»

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