Capitolo 1

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In una settimana di tempo -probabilmente la più intensa della mia vita- era radicalmente cambiato tutto.
In quel posto nessuno contava più nulla, o perlomeno, chiunque fosse ebreo, omosessuale, storpio o con problemi cognitivi.
Io, ad esempio, non contavo più niente.
Chiunque fossi, da dove provenissi, cosa avessi fatto nella mia vita e qualunque cosa avrei voluto fare: niente di ciò aveva oramai importanza.
Avevo trascorso quasi intere notti ad immaginare che posto potesse essere questo, ma la realtà dei fatti superava di gran lunga qualsiasi aspettativa prefissata.
Ogni umano, lì dentro, perdeva la dignità di se stesso.
Io continuavo a tenermi stretta la mia.
Avevo ancora un nome, un cognome, dei progetti per il futuro e la speranza.
Gilbert era con me, e ringraziavo Dio per questo.
Ero consapevole di quanto fosse difficile per lui.
Il suo corpo da ragazzo si stava appena formando, ma non era poi così forte da poter rispondere agli incarichi che gli venivano assegnati.
Era stato educato alla lettura, alla cultura, all'arte, e adesso era costretto a tenere lo sguardo basso ed obbedire a qualunque fosse l'ordine.
Con il suo caratteraccio si sarebbe messo presto nei guai.
Destino volle che finissimo a servire in casa del comandante, nonché il padre del soldato al quale avevo affidato il mio bene più prezioso.
Decisi che quando l'avrei rivisto gli avrei chiesto di ridarmi la collana, una volta per tutte.
«Hai visto mamma e papà oggi?» chiese Gilbert, togliendosi le scarpe sporche di fango e..melma.
Io annuì, tappandomi il naso a causa del pessimo odore. «Sì, mamma ha portato i panni puliti ed ha detto che papà sta bene. Quelle dovresti metterle fuori, prima che la stanza puzzi più di quanto non faccia già.» dissi, indicando gli scarponi persino troppo grandi per lui.
Il posto in cui passavamo la notte consisteva in uno stanzino di pochi metri quadri, con due materassini scomodi e poco puliti ed un bagno.
Eppure erano stati magnanimi, data la presenza di quest'ultimo.
Non vi era neppure una finestra, ma d'altro canto forse era meglio così: non sarebbe sicuramente stato bello guardare ciò che c'è all'esterno di queste mura.
«Vedrò se posso lasciarle fuori. Sei stanca? Hai finito per oggi? Io sì, finalmente.» disse, mettendosi a sedere sul materasso, con la schiena poggiata al muro. Mi dispiaceva che tra i due fosse lui a svolgere il lavoro più pesante.
Scossi la testa. «Devo preparare la cena, ti porto qualcosa non appena tutti hanno finito. Hai fame?» chiesi, malgrado non avessi dubbi sulla sua risposta.
Di fatto Gilbert annuì. «Sono affamatissimo, se non metto qualcosa sotto i denti muoio.» disse, in maniera teatrale, mimando la scena della sua morte.
Gli tirai addosso il cuscino. «Stupido, non dovresti scherzare così.» dissi, facendogli roteare gli occhi al cielo.
«Fatti una risata, Nev. Volevo soltanto farti ridere.» disse, prendendo il cuscinetto e tirandomelo addosso.
Accennai un sorriso, lasciando il cuscino sul materasso. «Non è finita, appena torno le prendi.» risi, mandandogli un bacio prima di uscire dalla stanza, chiudendo la porta alle mie spalle.
Quella casa era enorme, sembrava di ripercorrere gli stessi corridoi più e più volte.
Vicino alla rampa di scale vidi il figlio del comandante, e stavolta non esitai a fermarlo.
Indossava ancora la divisa, probabilmente era appena tornato.
«Potrei riavere la mia collana?» posai le mani sui miei fianchi, mentre il moro si girava a fissarmi abbastanza stranito.
«Dici a me?» chiese, prima di squadrami dall'alto verso il basso.
«Certo che dico a te. Vedi altre persone qui?»
«Come ti chiami?» chiese, incrociando le proprie braccia al petto. Si stava forse prendendo gioco di me?
«Non si risponde ad una domanda con un'altra domanda.» precisai, mimando il suo gesto ed incrociando dunque le mie braccia al petto.
Lui scosse la testa, passandosi la lingua tra le labbra. «Non hai capito niente, ragazzina. Sei in casa mia, se io voglio sapere come ti chiami l'unica cosa che tu devi fare è dirmelo. Non posso darti quella fottuna collana adesso.» disse, aumentando il tono della voce e facendomi dedurre dunque che fosse abbastanza serio.
«Non puoi darmela? È la mia! È un mio diritto, devo riaverla.» dissi, alzando la voce di rimando.
Era l'unica cosa di cui mi importasse realmente.
«Di che diritti stai parlando? Se avessi avuto dei diritti adesso saresti a casa tua e non qui, a servirmi soltanto perché ti è andata meglio degli altri. Farai bene a non alzare la voce con me, ne con chiunque altro se non vuoi che qualcuno ti ricordi chi sei in maniera meno gentile di come sto facendo io.» le sue parole furono un colpo basso, persino per me, che avevo sempre una risposta da dare.
Indietreggiai di qualche passo, come se ciò che aveva detto mi avesse letteralmente colpita.
Ingoiai il nodo che si era fermato alla gola, e cacciai indietro le lacrime; non gli avrei lasciato la soddisfazione di vedermi abbattuta a causa sua.
«So chi sono. Io sono un'ebrea, e tu sei disgustoso.» dissi soltanto, guardandolo negli occhi.
Mi lasciava stupefatta il modo in cui occhi così belli potessero guardare con tale disprezzo, allo stesso modo in cui dalle sue labbra rosee e morbide all'apparenza sputavano fuori le peggiori cattiverie che avessi mai sentito.
Lui non risposte, contrariamente a come immaginavo, ne si voltò.
Mi augurai che le mie parole lo avessero colpito almeno la metà di come avevano fatto le sue qualche minuto prima, e mi diressi in cucina.
Fortunatamente avevo ereditato da mia madre la passione per la cucina, e me la cavavo piuttosto bene.
D'altronde, sembravano tutti alquanto soddisfatti.
Il momento della giornata che più preferivo, probabilmente, era proprio quello passato ai fornelli.
Venivo lasciata completamente da sola, in tutta tranquillità, e ciò mi permetteva anche di mettere da parte qualcosa per me e Gilbert.
Se c'era una cosa che non mancava in quella cucina, erano proprio le patate.
Le utilizzai per il sugo per la pasta, e come contorno per l'arrosto, data l'abbondanza.
Mi divertiva e rilassava al contempo non solo preparare da mangiare, ma anche la tavola in maniera impeccabile, e sistemare il cibo nei piatti in maniera maniacalmente ordinata.
D'altronde lì non c'era molto da fare.
In realtà, tra le tante stanze all'interno della casa, non ero riuscita a resistere alla curiosità di sbirciare all'interno di una di esse.
Una veloce occhiata era bastata per intravedere probabilmente un centinaio di libri, ordinatamente sistemato su una libreria che dal pavimento giungeva fino al tetto.
Una visione bella da mozzare il fiato.
Mi ricordava la biblioteca di casa mia, all'interno della quale trascorrevo ore ed ore, intenta nell'immedesimarmi in migliaia di personaggi diversi.
Se c'è una cosa che amo sproporzionatamente, quella è osservare attraverso gli occhi dei personaggi dei miei libri.
Non è forse questo l'unico modo per vedere il mondo da differenti prospettive?
Avrei senz'altro preferito leggere per intrattenermi, anziché cucinare.
Ma come d'altronde mi era stato detto, dovevo persino esser grata di esser qui.
Sbuffai una risata al solo ricordo di tali parole.
Meschino.
Finì di impiattare il cibo e lo portai in tavola, dove vi erano già i signori Lachowski, quell'insensibile del loro figlio maggiore ed i due fratelli.
Mi chiesi come facesse la signora Lachowski a vivere in una casa con così tanti maschi.
Forse per questo era l'unica a mostrare della sincera gentilezza nei miei confronti.
In quella famiglia erano tutti biondi, o quasi.
L'insensibile aveva i capelli più scuri rispetto ai genitori ed i fratelli, così come il colore degli occhi, scuro rispetto agli altri.
La cosa certa era che nonostante tutto, la sua bellezza fosse innegabile.
«Grazie cara, puoi attendere in cucina.» la signora Lachowski accennò un sorriso, prima che fulminasse il figlio più piccolo con lo sguardo al suo "perché la ringrazi? è ebrea".
Ricambiai il sorriso della signora, augurando una buona cena, e me ne tornai in cucina.
Non mi feriva il commento di un bambino, poiché certamente le sue idee gli erano state dettate e non gli appartenevano ancora.
Approfittai del tempo libero per conservare ciò che era rimasto nelle pentole, Gilbert non sarebbe morto di fame stasera, contrariamente a come temeva.
In mancanza d'altro tentai di ammazzare il tempo sfogliando un vecchio ricettario, e trovandolo con mia sorpresa molto interessante.
Sussultai quando sentì del colpetti di tosse alle mie spalle, e scattai in piedi, voltandomi verso la fonte di disturbo.
«Cosa fai con quelli in mano?» chiesi, nel vedere il figlio maggiore portare i piatti sporchi in cucina. Francisco l'aveva chiamato la madre, dunque adesso mi era possibile attribuire un nome al suo volto.
«Ti do una mano, anche se non so da dove iniziare.» ammise. Si passò la lingua tra le labbra, come aveva fatto nel pomeriggio, e potei dedurre fosse un gesto abituale che si ritrovava a fare quando era nervoso o in imbarazzo.
«Non ho bisogno del tuo aiuto. Non ho bisogno dell'aiuto di nessuno, in realtà.» dissi, senza alcuna esitazione, prendendo i piatti dalle sue mani e mettendoli dentro l'acqua nel lavabo, iniziando a lavarli.
Seguirono minuti di silenzio, fin quando a spezzare questi ultimi non fu la sua voce. «mi dispiace per ciò che ti ho detto. non avrei dovuto.» disse, ed io non riuscì a fare a meno di ridere.
«Davvero vuoi che io ci creda? eri così sincero nel momento in cui pronunciavi quelle parole, che a confronto le tue scuse sanno di teatrale.» dissi, malgrado non lo pensassi affatto. Malgrado fosse immaturo da parte mia, il desiderio di ferirlo in qualche modo superava di gran lunga la mia obiettività.
«Non mi sono mai scusato con nessuno in vita mia, ragazzina. Ti costa tanto smetterla di far così? Dannazione.» sussultai nell'instante in cui sbattè i palmi sul bancone in legno, rilasciando un sospiro.
«D'accordo, fa come ti pare. Ho già fatto più di quanto fossi tenuto a fare nei tuoi confronti.» disse, e mio malgrado, era vero.
Dopo aver finito, presi il panno per asciugarmi le mani, prima di ripiegarlo e posarlo sul bancone.
«Mi chiamo Nevèa. pensi di potermi stringere la mano malgrado io sia ebrea?» chiesi, porgendogli il palmo della mia mano.
Le sue labbra si incurvarono in un sorriso, prendendo il posto del cipiglio che si era formato sul suo viso.
«Francisco, spero non sia un problema per te stringere la mia di mano.» disse, prima di stringere la mia piccola mano, grande probabilmente la metà della sua.
«Non ho dei pregiudizi.» ammisi, scrollando le spalle.
I miei genitori mi avevano cresciuta in tal modo che non sono accettassi, ma apprezzassi addirittura chi era diverso da me, poiché le diversità non costituissero altro che elementi da conservare nel mio bagaglio culturale.
Francisco annuì, con ancora un sorriso un po' patetico dipinto in volto.
Il suo sguardo si spostò sul contenitore che avevo coperto con un panno, nel vano tentativo di nascondere il cibo da portare a Gilbert.
«Cos'abbiamo qui? una ladruncola?» chiese, sporgendosi per afferrare il contenitore, invano dal momento in cui i miei riflessi mi permisero di metterlo in salvo ancor prima.
Dovette rendersi conto della preoccupazione chiaramente dipinta sul mio viso, dal momento in cui mi rassicurò ancor prima che io parlassi.
«Non lo dirò a nessuno. Sono soltanto degli avanzi. Prendi del pane, piuttosto.» disse, sollevandomi da ogni preoccupazione. «fumi?» chiese, estraendo una sigaretta dalla tasca dei pantaloni e portandosela alle labbra.
Scossi la testa.
«Se ti da fastidio non la accendo.» disse, catturandola tra l'indice ed il pollice, pronto a metterla via.
«No, no. Sono abituata, Gilbert fuma già da un paio d'anni dentro casa. A proposito di Gilbert, io dovrei andare.» dissi, prendendo gli avanzi ed una brocca d'acqua.
Francisco annuì semplicemente, riportandosi la cicca alle labbra prima di porgermene due. «Per tuo fratello.» specificò, buttando fuori una boccata di fumo grigio.
Il suo comportamento mi mandava in confusione, letteralmente.
Non sapevo se accettare semplicemente, o farmi delle domande sul motivo per il quale fosse d'un tratto così gentile.
La parte di me estremamente paranoica mi faceva temere che le sue intenzioni fossero quelle di farmi finire nei guai.
«Ne sarà sicuramente felice. Grazie, e buonanotte.» accennai un sorriso, senza però incontrare il suo sguardo.
Nell'ultima ora durante la quale avevamo condiviso la stessa stanza non ero riuscita a scrollarmi la tensione di dosso, malgrado la nostra discussione sembrasse essersi conclusa per il meglio.
Francisco sorrise divertito, probabilmente a causa della mia improvvisa freddezza e della fretta con la quale tentavo di fuggire da quelle quattro mura.
«Dormi bene, Nevèa.» disse, prima che mi chiudessi la porta alle spalle.
Mi poggiai contro ad essa nel momento in cui mi ritrovai fuori dal suo raggio visivo, chiusi gli occhi e rilasciai un sospiro che avevo trattenuto probabilmente per tutto il tempo; mi avrebbe messa nei guai, nel migliore dei casi.

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