Ichi

21 3 0
                                    

La katana che suonava contro quel misero pupazzo di legno, era come una sorella che mi parlava nelle orecchie. Ogni colpo, era un grido d’incitamento. Più forte. Più in alto. Colpisci!
Mi fermai di colpo, e i capelli mi frustarono il volto. Affannavo, ma che importava? Non avrei potuto essere più viva di così. I muscoli delle braccia e delle gambe erano in fiamme, il sudore mi appiccicava i capelli al collo, sebbene fossero legati in alto sulla testa. Quel peso mi sbilanciava, mi dava fastidio, ma dovevo conviverci. Ci convivevo da sempre. Espirai profondamente, dritta la katana davanti a me. Potevo focalizzare quel bersaglio, potevo colpirlo.
  «È tardi.» Mi voltai, il vecchio era davanti a me. Mi fissava pensoso, le mani rugose giunte davanti a sé. «Ti stanno cercando.» Con un movimento fluido, abbassai la guardia e presi il fodero da terra. La lama scivolò all’interno con morbida precisione.
  «Quanti?»
  «Tutti quelli che tuo padre ha ritenuto necessari.» Chiusi gli occhi. Inspirai a fondo. Porsi la katana al vecchio, che l’avrebbe custodita gelosamente fino al mio prossimo ritorno. Mi avvicinai al barile, colmo d’acqua fredda e stantia, e mi sciacquai il viso e le mani. Tolsi la polvere e lo sporco, poiché non potevo permettere che qualcuno lo notasse. Poi, dietro un paravento di bambù, mi svestii. Ogni movimento era così meccanico che quasi non ci pensavo più. Lo avevo fatto tante di quelle volte, che ormai non avvertivo più neanche l’ansia che mi coglieva all’inizio, quando temevo di venire scoperta. Con gli anni, ero diventata più veloce e meno impressionabile.
Indossato il kimono, legati i capelli, coperto il viso, non restava che uscire. Fuori dalla porta, le scale in legno cigolavano sotto il peso di ogni passo, mentre le salivo. Sentivo lo scalpiccio frettoloso dei passi delle guardie che perlustravano la strada, le loro voci che si chiamavano nel buio. Shuen era lì fuori, ad attendermi come sempre, il viso truccato alla perfezione, il kimono floreale impeccabile. Dalla grossa cintola che aveva in vita, trasse fuori un vasetto, del cui contenuto mi cosparse il collo e le base delle orecchie. Il profumo di gelsomino mi invase il naso, ed io seppi che quell’odore intenso avrebbe ingannato l’olfatto poco attento delle guardie. Non avevo proprio il tempo di farmi un bagno. Mi porse un ventaglio in carta di riso ed insieme uscimmo nell’ampio ingresso dell’edificio, calzammo le minuscole scarpe di stoffa tanto odiose e aprimmo la porta.
Il profumo di ciliegi era intenso, specie durante la notte. I lumi per le strade illuminavano mattoni ed erba, ostinatamente cresciuta fra le crepe e fra le pietre. La portantina non era lì, ovviamente, o mi avrebbero scoperto anni fa. Ma, guarda caso, ne passò una in quell’istante, chiusa, portata a braccia da quattro uomini. Due brevi salti ci concessero di montarvi sopra con sufficiente agio, facendo così in modo che i miei quattro uomini non dovessero fermarsi. Le guardie erano dappertutto, per le vie della capitale, nervose e agitate all’idea di avermi persa nell’arco di due ore. Bussai due volte sul pavimento di legno della portantina e gli uomini si fermarono proprio accanto a un gruppo di quei solerti soldati. Scostai lievemente la tenda, coprendomi il volto col ventaglio.
  «Come mai tanta confusione, di grazia?» mormorai ad uno di loro. Notai velocemente l’elmo allacciato male sotto il mento, la barba che gli ricresceva sulle guance, lo spallaccio storto. «No, aspetta. Chiama il tuo superiore.» aggiunsi subito. Aveva appena aperto la bocca, che dovette richiuderla di scatto. Corse a chiamare il capitano, che come sempre, si rivelò essere Fen’Qi.
  «Altezza.» esordì. «Temevamo per la vostra incolumità.»
  «Tutto il comparto delle guardie imperiali basterebbe a proteggere l’intera capitale.» dissi, modulando il tono di voce. Vidi il pugnale ricurvo spuntargli da dietro la schiena, la grossa spada al fianco, l’elmo spiovente con le fasce dorate. «Io non sono che l’umile servitrice dell’Imperatore.»
  «La vostra incredibile gentilezza è proverbiale, altezza.» Le rughe dell’età avanzavano sul suo volto pietroso. Povero Fen’Qi. Destinato a badare per sempre alla più piccola delle figlie del grande Imperatore Nurashima, Colui che Piega le Montagne, la Forza della Virtù, Equilibrio dei Viventi. E molti altri nomi, che non mi sono mai data la pena di ricordare. «Posso chiedere dove siete stata, altezza? Vi abbiamo cercata con estrema sollecitudine.» Socchiusi gli occhi, nel riuscito tentativo di un’espressione estremamente desolata dalla notizia.
  «Sono spiacente di essere la causa del trambusto. I ciliegi in fiore sono magnifici in questo periodo dell’anno.» gli sorrisi. «Al Palazzo.» ordinai quindi, ritirandomi dietro le tende. I miei uomini ripresero il cammino con la stessa andatura, lasciando il capitano e i suoi segugi lì, in mezzo alla strada, a masticare bile.

Nero PeceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora