Shi

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Trascorsi i giorni successivi in meditazione, nel grande tempio di Hanayume, il Drago Verde, lo Sposo del Vento. Esso era lo spirito della quiete, della calma nel combattimento, della serenità interiore. Non che fossi molto serena, interiormente, ma quel luogo era l’unico in cui potessi stare da sola. Solo ai membri della famiglia imperiale era permesso accedere a quel tempio, perciò gli unici di cui dovevo preoccuparmi erano i monaci, che comunque non mancavano di tenermi d’occhio per conto di qualcuno.
Mia madre mi aveva iniziato a quella pratica, che aveva imparato da Kyoshi. Seduta nell’immensità vuota del grande salone, fissata dalla grande statua di Hanayume, potevo stare sola coi miei pensieri, senza preoccuparmi di dover apparire qualcosa di diverso da quella che ero. E quel silenzio e quella solitudine, così rari nella mia vita, erano tutto ciò di cui avevo bisogno in quel momento per poter riordinare le idee.

Non avevo notizie di Brandon da diversi giorni, ma sapevo che Shuen, con la sua eccezionale riservatezza, era riuscita a comunicargli l’ordine senza destare i sospetti di nessuno. Anche lei aveva addosso molti occhi, a causa della nostra stretta intimità, ma sapeva come eluderli. E d’altronde, non avevo nessun altro di cui mi fidassi così tanto, a parte me stessa, da potergli affidare un incarico simile. Ripensai ad Iname e tentai di analizzare i suoi comportamenti in quegli anni, alla luce di ciò che credevo fosse il motivo che la spingesse ad agire: liberarsi di suo marito. Non conoscevo bene daimyo Akira, lo avevo incontrato davvero poche volte per potermi fare un’idea precisa di lui. Sapevo, però, che era uno dei fedelissimi di mio padre, un uomo dall’incrollabile lealtà e dalla mano a volte un po’ troppo pesante. Molte delle sue concubine avevano tentato di celare i segni delle sue percosse, sebbene non ne avessi mai visto traccia sul viso perfetto di Iname. Quale che fosse la ragione, ero abbastanza certa del fatto che Iname non amasse suo marito e che, anzi, fosse decisa ad eliminarlo, cosa di per sé non facile. Ma quale modo migliore, se non assoldare gli assassini più temuti della capitale?
Sorrisi nell’ombra, a quel pensiero.
I miei corvi si erano fatti una fosca fama, in soli tre anni di onorato servizio. Colpivano chiunque, di qualunque estrazione sociale, su commissione, naturalmente. Nessuno, però, immaginava anche solo lontanamente che lavorassero per me. Che fossi io, la loro creatrice. Avevo avuto molta cura, nello scegliere quali missioni autorizzare: dovevano colpire tutti, indistintamente, gente del nostro popolo come gente del popolo nemico. In tre anni, i corvi avevano acquisito fama di una gilda ben organizzata, che neutralizzava sempre l’obiettivo e che agiva solo ed esclusivamente per lucro, senza alcun fine politico. Non potevo permettere che qualcuno pensasse che colpissero solo i miei nemici, o sarei stata facilmente scoperta. Quei tre anni erano serviti a rendermi inattaccabile e a renderli letali e temuti. Solo così, avrei potuto utilizzarli per i miei scopi.
Per questo, la sicurezza nella voce di Iname, mostrandomi di sapere del mio coinvolgimento, mi aveva lasciato senza fiato. Ma perché rivelarmi quella verità scomoda, proprio sul conto del marito? La risposta mi era giunta grazie alle parole di Shuen: perché non voleva che avessi in pugno lei, voleva che avessi in pugno suo marito. Ma certamente, non è una cosa che si possa dire con naturalezza, non a me, non alla festa della Prima Principessa. Che era stata, però, l’unica occasione per incontrarmi. Sapevo che daimyo Akira non lasciava molto potere alle donne della sua casata, tutto era saldamente sotto il suo controllo, nulla gli sfuggiva. Per questo, probabilmente, Iname non aveva avuto altro modo, per mettersi in contatto con i corvi, se non attraverso me, a quella sciocca festa. Ma volevo procedere con molta cautela: non ne avevo la certezza, ma poteva anche trattarsi di una trappola ordita dalle mie sorelle. L’occhiata che aveva lanciato a Lu Natsumi era ancora impressa nella mia mente.

Inspirai profondamente. Espirai lentamente. Da quando mia madre era morta, privandomi della sua protezione, avevo sempre l’impressione di camminare sul ciglio di un baratro, il cui fondo ribolliva di belve fameliche e sbavanti. Il minimo passo falso mi avrebbe consegnata in pasto a loro. Un solo desiderio, un unico sogno mi aveva spinta ad andare avanti, a confondermi tra di loro, a nascondermi: fuggire dalla capitale, Aku Meika, Colei che Sboccia, la Città di Luce. A me, non aveva riservato altro che oscurità e dolore.
Aprii gli occhi, osservando la luce di mezzogiorno entrare dritta come una freccia, dal lucernario sul maestoso soffitto decorato. Era il momento, potevo uscire.
Mi alzai con un unico movimento fluido, per nulla intorpidita dalla posizione immobile che avevo tenuto per tanto tempo. Ringraziai mentalmente il vecchio, per questo. Nascosi il volto dietro il ventaglio e mi avviai a passo elegante verso l’uscita del tempio. Notai alcune ombre muoversi, dietro le alte colonne, e seppi che le mie spie stavano correndo dai loro padroni. Nell’ampio cortile, cinto da basse mura, un enorme albero svettava come un re incontrastato. Le alte fronde verdi proiettavano un’ombra ampia, alla base del tronco, dove tre monaci sedevano in meditazione. Il silenzio era palpabile. Mi avviai fuori dal cortile, sul piccolo sentiero di pietre, fino alla portantina che mi attendeva appena fuori dalle piccole mura. Vi montai e chiusi le tendine.
  «L’incontro è avvenuto stanotte.» mi riferì immediatamente Shuen. Mi porse una ciotola di tè freddo. «Avevi ragione: desidera che suo marito sia il prossimo obiettivo.» Bevvi cautamente, sentendo la frescura e la dolcezza del tè rinvigorirmi.
  «Ha espressamente richiesto qualcuno?» Era facoltà dei committenti, affidare il mandato ad un corvo specifico. Questo, normalmente, era indice di una particolare conoscenza dei miei assassini e tendeva a mettermi in guardia. Ma Shuen scosse il capo.
  «Ha detto che farà in modo che la strada sia libera.» Aggrottai lievemente la fronte. Avrebbe neutralizzato le guardie? Come poteva avere questa facoltà, e non quella di contattare autonomamente i miei corvi? Mi sentii come un gatto a cui si rizzano i peli, per l’allarme che quell’affermazione mi scatenò.
  «Allora dev’essere uno della capitale a svolgere il lavoro.» Tra i miei assassini c’erano persone di molte nazionalità differenti, comprese alcune reclutate direttamente qui, ad Aku Meika. Il mio caro padre non aveva idea della fame in cui versava il suo popolo, di ciò che non era disposto a diventare, pur di sopravvivere. Un po’ come me.
Shuen capì il motivo del mio ordine: se anche fosse stato scoperto, dovevano esserci meno indizi possibili che potessero condurli a me. E mio padre e i suoi funzionari erano così stupidi, da basarsi specialmente sulla nazionalità dei loro indizi. Fissai Shuen con intensità, desiderando ardentemente poterle parlare da sola, poiché neppure una portantina in movimento nel mezzo di una strada affollata era un luogo abbastanza sicuro per parlare di certe cose. Ma sperai che capisse: se l’obiettivo fosse stato centrato, se daimyo Akira fosse stato eliminato, saremmo stati ad un passo dal raggiungimento dei miei scopi, gli scopi per cui avevamo lavorato così duramente in quegli ultimi tre anni. Il mio caro padre si sarebbe finalmente sentito minacciato da quelli che aveva sempre liquidato come malviventi di bassa lega. Non potevano essere così incapaci, se erano stati in grado di uccidere uno dei suoi uomini più vicini, uno dei guerrieri più forti a disposizione nel suo arsenale. Mi morsi un labbro, tentando di tornare coi piedi per terra: non dovevo, in nessun modo, sperare così tanto. Dovevo rimanere lucida.

  «Ci siamo.» mormorò all’improvviso Shuen. Socchiusi leggermente una tenda, vidi il familiare muretto di pietra scorrere accanto alla portantina. I miei uomini, come sempre, non si fermarono. Proseguirono imperterriti, fingendo di non accorgersi di me e Shuen che, con agili salti, uscimmo dalla portantina e ci arrampicammo sul muro, calando velocemente dall’altro lato. Era pieno giorno, la folla per le strade era tanta e il loro vociare coprì senza difficoltà i nostri tonfi, quando atterrammo sull’erba del piccolo giardino. Veloci, ci avvicinammo all’edificio che si ergeva silenzioso al centro del giardino ed entrammo da una delle porte scorrevoli.
Tirai un lieve sospiro. Era sempre bello ritrovarsi lì dentro, in quella casa ignorata da tutti, silenziosa, deserta. Il vecchio ci accolse subito, con due bastoni nelle mani. Me li porse senza neanche salutarmi.
  «La tua tenuta ti aspetta nello scantinato.»
Sorrisi. Sorrisi selvaggiamente, come non me ne potevo concedere all’interno di quel Palazzo di serpenti. Lì dentro, potevo essere finalmente me stessa. Presi i bastoni e mi precipitai velocemente nello scantinato, slacciandomi nella furia la grossa cintura di seta, sfilandomi la tunica, la sottoveste, tutto. Infilai la mia tenuta da corvo, comoda, facile da indossare. Le mie gambe e le mie braccia erano libere di mulinare nell’aria al ritmo dei colpi, potevo sentire il vento della libertà nelle orecchie, sebbene mi trovassi in un buco male illuminato, sotto terra. Mi bastava quello, per sentirmi libera da ogni giogo: dal giogo della mia nascita, del mio sangue, della mia famiglia, della mia nazionalità. Tutto si dissolveva, quando potevo combattere. Importava solo quello che ero in grado di fare, lì, non chi fossi, non quale sangue mi scorresse nelle vene, non di che colore fossero i miei occhi, non chi fosse mia madre o mio padre. Quando indossavo quei vestiti, niente di tutto questo aveva più valore e scompariva, nel turbinio dell’allenamento.
Con un bastone per mano, colpii il pupazzo di legno e in quello stesso istante, sentii il vecchio iniziare il suo lavoro di falegnameria. I suoi rumori coprivano i miei, permettendomi di concentrarmi interamente su quello che facevo. Cambiavo guardia ad ogni colpo, perché sapevo di poterlo fare, quindi destra, sinistra, in alto, destra, sinistra ancora e ancora, in uno schema semplice ed intuitivo, infinitamente più semplice di quello che ero costretta a mandare avanti, al Palazzo d’Avorio.
Voltandomi di scatto, per colpire l’aria alle mie spalle, il mio bastone venne intercettato dal fodero di una katana e sobbalzai. Ansante, fissai sbalordita l’uomo che mi aveva interrotta.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Nov 04, 2018 ⏰

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