Del lavoro

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Il giorno dopo, completamente digiuni, aspettammo la corriera, una grossa eliauto verde, che ci avrebbe condotti da questo Kanak. La vita lì era dannatamente cara, perciò, dopo un posto in cui vivere, la mia priorità diventò il lavoro. La corriera, dopo un viaggio che durò quattro ore, ci lasciò sulla piattaforma dell’Area ventidue del Sesto Quadrante. Quell’Area era decisamente meno lucente delle altre. Gli edifici erano fatiscenti, sebbene non così tanto da stonare con le Aree adiacenti, e le strade erano più sporche. I negozi di lusso scarseggiavano, così come gli uomini posati e aggraziati che avevamo visto non appena arrivati.
Kanak ci accolse in una stanza al ventiquattresimo piano di un palazzo. Sulla porta del suo ufficio c’era la scritta “Collocamento Plutoniani – Kanak Lhe”. La porta scorrevole si aprì a fatica, cigolando, e mostrandoci un ambiente angusto e fetido. Le finestre erano sporche e la moquette sul pavimento era bruciata in diversi punti. Il tavolo da lavoro aveva quattro computer, i cavi sparpagliati in disordine. L’uomo che ci accolse era grosso e corpulento, sebbene più basso di noi, come tutti gli umani. I capelli azzurri erano radi sul capo sudato, e la tunica bianca era macchiata di cibo. Ci squadrò da capo a piedi, quando varcammo la soglia, dopo aver pazientemente aspettato il nostro turno per due ore. Tutti i plutoniani usciti di lì non avevano mutato la triste espressione con la quale erano entrati. Dopo aver registrato le nostre generalità, ci chiese cosa avessimo intenzione di fare lì.
«Se siete venuti qui per cercare fortuna, potete benissimo tornare da dove siete venuti.» chiarì, senza mezzi termini. «Non c’è niente qui per voi.» Mi feci coraggio.
«Non abbiamo dove vivere, vogliamo soltanto una casa e un mezzo con cui sostentarci. Siamo manodopera fresca.» azzardai. Gli occhi di Kanak scintillarono, per poi posarsi su mia sorella, che tenne per tutto il tempo lo sguardo a terra. «Non avete che da sistemarci, ovunque ci sia spazio per due ragazzi.» continuai, quando notai che quello sguardo non accennava a diminuire d’intensità.
«Bene…» scosse il capo, spostando l’attenzione sui suoi computer. «Bene. C’è una stanza nell’edificio Omicron, a tre Aree da qui. Vi riceverà Trevila. Trevila possiede anche un centro di riparazione per eliauto: puoi cercare lavoro lì, plutoniano. Questi sono i vostri documenti.» Mi consegnò un foglio elettronico. Poi mi guardò negli occhi, dopo aver lanciato un’altra fugace occhiata a Talia, cosa che iniziava a irritarmi terribilmente. «Buon divertimento.» ci augurò, con tono di scherno, congedandoci. Furioso dal comportamento viscido di quell’essere, non risposi e mi voltai prendendo Talia per mano e trascinandola via da quel posto fetido, augurandomi di non doverlo rivedere mai più.
Mentre ci dirigevamo a piedi verso il luogo in cui saremmo andati ad abitare, sperai che Trevila avesse qualcosa di vagamente somigliante alla civiltà. Talia avvertì la mia irritazione, perché faticava a tenere il mio passo.
«Rasmenos, aspetta…» affannò dopo un po’, e solo allora mi accorsi di star correndo. Mi voltai verso di lei, che si fermò per riprendere fiato. Mentre mi raggiungeva, notai quanto fosse già una donna e capii facilmente il motivo per cui Kanak l’avesse guardata così intensamente. Mi resi conto che dovevo proteggerla. Che ero l’unico in grado di farlo. Quando alzò lo sguardo acceso dalla corsa su di me, mi accorsi di quanto fosse diventata bella e la presi per le spalle, fissando il mio sguardo nel suo, giovane e acceso di vita.
«Qualunque cosa accada, dovrai dirmela. Non devi nascondermi nulla di quello che succederà, Talia, d’accordo?» La ragazza non capì cosa intendessi, e mi guardò spaesata.
«Ma cosa…»
«Promettilo, Talia.» La guardai intensamente. «Talia, siamo soli.» Quell’affermazione la colpì con forza, e mia sorella esercitò tutto il suo autocontrollo per non cedere alle lacrime. «Possiamo fidarci solo di noi, io di te e tu di me. Se iniziamo a nasconderci le cose non andremo lontano. Dobbiamo collaborare per sopravvivere, perciò qualunque cosa ti accada quando sarò via, dovrai dirmela.» Gli splendidi occhi blu di mia sorella soffocarono le lacrime, e Talia annuì, lanciandosi fra le mie braccia. L’abbracciai con dolcezza, trasmettendole tutta la sicurezza che non avevo per me. «Andrà tutto bene, vedrai.»

Quando arrivammo da Trevila, era pomeriggio inoltrato. Erano passate le prime quattordici ore di dì, e ne rimanevano ancora sei prima che le stelle fossero tramontate. Trevila, a dispetto di come l’avevo immaginato, era una donna, una donna anziana. Dimostrava all’incirca settant’anni, quasi vecchia secondo l’aspettativa di vita della nostra epoca, che per gli umani riusciva ad arrivare fino ai centoventi anni. I capelli celesti tendevano ormai al bianco, ma gli occhi erano ancora di un bell’azzurro limpido e sincero. Ci accolse nell’atrio del suo centro con un sorriso, il primo che avessimo mai visto in quella città.
«Voi dovete essere i nuovi arrivati, i fratelli di Plutone.» esordì con una voce squillante e gioviale. Fu un balsamo per le nostre orecchie. «Piacere, sono Trevila.» Vestiva una tuta da meccanico, imbrattata di olio, e si tolse un guanto sporco per stringerci la mano, gesto rincuorante se paragonato a quello della Guardia Vegliante del giorno prima. «Sarete affamati. HM-48, prepara qualcosa di nutriente per i nostri ospiti!» urlò, rivolta a qualcuno al di fuori della stanza. Da una porta scorrevole in fondo alla sala, comparve un robot antropomorfo, vestito persino di una tuta simile a quella diTrevila.
«Gli ospiti gradiscono un pasto freddo o caldo? Il menù è a scelta.» disse meccanicamente.
«Qualcosa di sostanzioso, tesoro. I ragazzi sembrano digiuni da giorni.» rispose per noi la donna.
«Due, per l’esattezza.» aggiunse ingenuamente Talia. Trevila scoppiò a ridere e congedò il robot con l’ordine di raddoppiare la solita razione.
Nell’attesa di mangiare, Trevila volle informarsi su di noi, sulla nostra storia e sulla nostra famiglia. Risposi per entrambi, non essendo ancora mia sorella pronta per parlare di un dolore così recente e ancora fresco nel suo cuore. Trevila rimase colpita e promise che mi avrebbe preso immediatamente con sé come aiutante. Fu la prima bella notizia che ricevetti, e che ci risollevò un po’ l’animo. La seconda bella notizia fu che il pasto era pronto.
Mangiando, potei osservare come quella donna affabile era abituata a trattare con quelli come noi e che non li disdegnava affatto. Era la prima donna umana che incontravamo che era civile quanto si addiceva all’evoluzione della sua razza.
Dopo l’abbondante e rifocillante pasto, ci mostrò la nostra casa. Constava semplicemente di una stanza da letto doppia, un sanitario e una cucina. Era abbastanza piccola, ma adatta per noi, pulita ed efficiente. Prima di lasciarcela, Trevila volle controllare che le porte, le finestre, la cucina e i sanitari funzionassero a dovere. Ci aiutò a regolare la morbidezza del letto e dei cuscini e l’ora in cui avrebbero dovuto rimettersi a posto, e pose sul mio comodino una sveglia.
«Domattina alle sette, ragazzo. E non arrivare addormentato!» mi raccomandò con un sorriso, chiudendosi poi la porta alle spalle con la carta magnetica che solo noi e lei possedevamo. Dopo averla salutata con gratitudine, non riuscimmo a fare altro che addormentarci.

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