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Me ne stavo seduta in mezzo al buio, senza riuscire a muovermi e non capivo come fossi finita lì, circondata dal silenzio. Qualcosa di viscido mi aveva afferrato il polso e lo stringeva così forte che il dolore era lancinante. Delle bianche unghie stavano lentamente penetrando all'interno della carne. Le vedevo muoversi sotto la mia pelle facendomi sanguinare. Io urlavo e piangevo, ma una risata copriva le mie suppliche disperate.

«Lei mi appartiene». Due occhi luminosi spiccarono nel buio, a pochi centimetri dal mio volto.

«Siete solo d'intralcio».

Continuava a ripeterlo mentre mi torturava e il suo ghigno astioso balenava sopra di me. Rideva divertito davanti al mio dolore, mentre mi conficcava aghi sotto le unghie e nella carne. Rovinava il mio corpo con arnesi arrugginiti, anzi... diceva di starlo aggiustando. Notai una porta aperta, l'unica cosa che riuscivo a distinguere nel buio, e i miei occhi offuscati dal dolore scorsero delle persone immobili che mi fissavano. L'immagine di quella porta si faceva sempre più vicina per mostrarmi i loro sguardi assenti, nonostante le smorfie che li modellavano il volto. Ma quelle non erano persone reali. Erano bambole, e in qualche modo io provavo un forte senso di nausea a fissarle. C'era qualcosa in loro che mi faceva rivoltare lo stomaco, e forse era la straordinaria, macabra somiglianza con le persone vere.

«Lei mi appartiene».

Mi svegliai di soprassalto, gli occhi sbarrati e i battiti del mio cuore erano così forti da pulsarmi in gola. L'aria mi mancava, così mi tirai a sedere e strofinandomi gli occhi mi resi conto di essere in un bagno di sudore. Il coniglietto era caduto per terra, a faccia in giù. Sporgendomi lo raccolsi per posarlo sul letto. Il respiro tornò regolare nel mio petto, ma l'immagine di quegli aghi sporchi di sangue e di quelle bambole raccapriccianti restò incastrata nella mia mente. Non avevo mai fatto un sogno così orrendo. Le sensazioni erano state orribilmente reali, sentivo ancora quegli artigli bucarmi la carne, ma era stato comunque un sollievo risvegliarsi. La porta cigolò. Era mia madre che entrava in camera. Non appena vide il mio volto esausto le svanì il sorriso dalle labbra.

«Tesoro, ti senti bene?».

«Sì, ho solo fatto un brutto sogno. Va tutto bene adesso».

«Ti è venuta a trovare Daisy, le ho detto di aspettarti in salotto».

Scesi di soprassalto dal letto. Ero conciata come una pazza e non volevo che la mia migliore amica mi vedesse in quello stato. Mentre mia madre chiudeva la porta, io corsi verso l'armadio e tirai fuori un abito qualunque. Nel giro di pochi minuti uscii dalla mia stanza pronta e ordinata, senza riuscire però a nascondere il fiatone.

«Finalmente!». Esclamò Daisy sorridendo.

Daisy l'avevo conosciuta alle medie e non c'eravamo più separate. Era una persona buona e generosa, ed era sempre la benvenuta nella nostra famiglia. I miei genitori apprezzavano la sua educazione, ma io le volevo bene soprattutto perché non mi aveva mai chiesto niente del mio passato. Era l'unica cui ero riuscita a confidarmi sull'amnesia. C'era una bella giornata di sole così ci sdraiammo in giardino, ai piedi di un vecchio tupelo. Parlammo riparandoci sotto l'ombra dell'albero. Avevo portato dei fogli con un paio di matite e c'eravamo messe a disegnare. Daisy si stancò subito. Prese a raccogliere margherite e a infilarle nella sua treccia bionda, spettegolando su Luisa, una ragazza il cui scopo nella vita era di attirare l'attenzione di tutti. Mentre la mia amica parlava, io ascoltavo continuando a disegnare e senza mai distogliere lo sguardo dal foglio.

«Chi è quello?». Mi domandò all'improvviso, notando il disegno.

Come se fino a quel momento fossi stata addormentata, battei le palpebre davanti al foglio e rimasi leggermente confusa nel vedere lo stesso personaggio disegnato più volte.

«Non lo so».

Non avevo idea di chi fosse. Il disegno più chiaro mostrava un signore con una giacca nera e la pelliccia esageratamente voluminosa sulle spalle. Aveva un bel sorriso felice e due occhi gialli un po' coperti dalla frangia. Era vestito con abiti scuri e in mano teneva un bauletto azzurro. Forse un carillon.

«Forse l'ho visto in qualche libro d'illustrazioni».

«Andiamoci a prendere un gelato». Daisy cambiò discorso, sembrando poco interessata.

«Le formiche mi stanno entrando sotto la gonna!».

Quella stessa notte feci un altro incubo e fu peggiore di quello precedente. Sognai ancora quella figura scura, che mi torturava senza pietà continuando a ripetere sempre la stessa frase: "Lei è mia". Mi svegliai verso le due del mattino con l'affanno e mi rannicchiai contro il muro alle mie spalle. Posai le mani sul mio volto e inspirai profondamente.

«Era solo un sogno, soltanto un sogno». Mormorai.

Poi posai lo sguardo sul coniglietto accanto a me, che mi fissava con il suo occhio nero, e con uno sguardo infastidito lo buttai per terra. Da quando dormivo con quell'affare vicino, i miei sogni erano diventati incubi senza senso! Mi voltai stendendo le gambe e fu in quel momento che toccai qualcosa con il piede. Alzai lo sguardo e notai una bambola seduta sul letto. Per i primi istanti rimasi bloccata a fissarla, non capivo come fosse arrivata lì e la prima cosa che pensai era che forse i miei genitori mi avevano fatto un regalo. Non avevo un particolare interesse per le bambole e a dire il vero sentii una sensazione di fastidio nell'averla in stanza. Era una bambola particolare, fatta di cera, e aveva delle caratteristiche fuori dal comune. Aveva un casco di fiori in testa che scendevano sui capelli, e soltanto pochi ciuffi accarezzavano le sue guance. Indossava un grazioso vestito bianco pieno di ricami e merletti, con un nastro nero stretto sulla vita. Le braccia erano più lunghe del normale, non erano nemmeno umane e aveva lunghe dita affusolate. Il particolare che catturò la mia attenzione era una rosa al centro della sua bocca, come per tappargliela. Avvicinai la bambola e la scrutai sotto la luce della luna. Toccai il suo viso e mi resi conto che qualcosa non andava. Mi stavo inginocchiando per osservarla più da vicino quando sentii qualcosa. Una sorta di suono sommesso... come un rantolo. Che proveniva dall'interno stesso della bambola. Con un grido la lasciai cadere e mi alzai in piedi, tremando violentemente. Premetti la schiena contro il muro e continuai a gridare chiamando i miei genitori.

Jason The Toy Maker Creepypasta Ufficiale Ita Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora