L'inizio della ricerca

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Avete presente quel senso di disagio che si prova quando si partecipa al funerale di qualcuno che non si conosceva bene? Non si hanno le carte in regola per fare niente di eclatante: non puoi piangere troppo (sembrerebbe esagerato e teatrale), non puoi sorridere (sarebbe irrispettoso), e non puoi neanche annoiarti (sarebbe a dir poco indecoroso).

Ecco, rientrare in casa quel giorno sembrava questo: partecipare ad un funerale di un lontano amico di famiglia. Niente di più, niente di meno. L'unica espressione accettata sul volto era quella di una moderata rassegnazione, mista a labbra strette in una sorta di "sto trattenendo un'emozione, da qualche parte, fidati".

Mi buttai sul divano dando uno sguardo veloce all'orologio: le 19:15.

Mio marito sarebbe rientrato da lì a poco. Non ero sicura di essere già pronta a parlare di quello che era appena successo, ma di sicuro ero preparata a gettarmi fra le sue braccia lì, su quel divano color merda – unico complemento d'arredo scelto dalla mia dolce metà - e farmi accarezzare sulla nuca.

Il mio telefono continuò imperterrito a ricevere notifiche: mia madre, mia sorella, mio padre, i miei – quasi ex – colleghi.

Per la prima volta dopo anni, non avevo alcuna voglia di stare con il naso immerso in quell'aggeggio infernale. Il telefonino, termine così desueto da quando si è deciso di ribattezzarlo "smartphone", ovvero lo strumento perfetto per i depressi cronici, gli ansiosi, i socialmente inadeguati e gli insonni. Insomma: l'accessorio adatto a tutto il genere umano.

Mi alzai in maniera poco convincente dal divano e mi recai in cucina. Se c'era qualcosa in grado di svuotarmi davvero la mente e prosciugare pensieri poco felici, di sicuro erano i fornelli. Impastare, sminuzzare, mantecare.

Quel giorno però tutto appariva difficile, pesante, insormontabile.
Alle 19:30 cominciai seriamente a sperare che Valerio, mio marito, si sbrigasse a tornare.

Mi infilai un paio di improbabili leggins fucsia comprati da Decathlon in uno dei rari impeti di convinzione sportiva, di quelli dove le intenzioni superano di gran lunga le azioni e che, dopo mesi, ti fanno ritrovare con chili in più e un sacco di articoli sportivi che puoi fieramente mostrare in casa.

Avevo bisogno di Valerio come non mai. Speravo fortemente che riuscisse a capirmi, a capire il disorientamento, a capirmi come ultimamente era in grado di fare. Il matrimonio fra noi due aveva suggellato una sorta di patto splendido e inaspettato nel quale ognuno era il porto sicuro dell'altro. Gli anni di lotte intestine, di scontri bellici tra la cucina e la camera da letto, di pianti soffocati e di urla eclatanti sembravano un lontano ricordo. Probabilmente e altrettanto inconsciamente, avevo bisogno di questo: di un patto. Per una che mai avrebbe pensato di potersi sposare (o di volerlo, semplicemente), il matrimonio rappresentava sia il raggiungimento di un traguardo insperato che un superamento da ansia generalizzata.

Nell'attesa che rientrasse a casa per pungermi le guance con la sua barba incolta, mi guardai allo specchio dell'ingresso. Il mio viso ancora non mostrava i segni della mia età effettiva, forse perché più in carne del dovuto, forse perché quando l'anima è ancorata ad una sindrome di Peter Pan imperante non è facile disfarsene anche nel fisico. I capelli perennemente spettinati, sfibrati da anni di tinte casalinghe per arrivare ad un dubbio risultato fra il rosso e il rame, mi salutavamo mestamente dalla mia immagine riflessa.

Impugnai lo smartphone e cliccai sull'app di stalking per eccellenza, facebook. Se c'è un social network in grado di illuminarti su vita, morte e miracoli di una persona che non vedi da secoli, è proprio quella fottuta "F" blu. Non ho idea del perché, dal pomeriggio, mi si fosse piantata nella mente l'idea di scoprire che fine avessero fatto i miei ex. E non i cosiddetti "ex storici", quelli che hai il coraggio di palesare agli amici e persino alla famiglia, no. Anche i ragazzi da un bacio e via, quelli dell'amore platonico, di una carezza sulla coscia che ti fa sussultare e partire in pompa magna per assurdi e pomposi viaggi mentali.

Seduta a gambe incrociate sulla poltrona, provai a fare mente locale. Cazzo, più che mente locale, una vera e propria ricerca sinaptica fra gli archivi della mia memoria storica, dal momento che il mio primo bacio lo diedi alla fine della quinta elementare.

E infatti, mi venne subito in mente lui. Alfredo.
Uno scrocchiazeppi di soli 11 anni, che mi fece odiare i baci con la lingua.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Sep 12, 2018 ⏰

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