Capitolo 3

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Fu una chiamata a svegliarmi quella mattina, al mio risveglio ero convinta che la serata precedente fosse frutto del subconscio che durante il mio sonno aveva preso il controllo della mia mente.
Evidentemente il nome "Zach Herron" sullo schermo del telefono smentiva la mia teoria. Esitai, un po' per l'ansia e l'imbarazzo, un po' per la mia voce da appena sveglia non tanto appropriata.
Dopo un mugolio mi passai le mani sulla faccia e risposi alla chiamata.

"Pronto?"

"Hey Luna, sono Zach, volevo farti sapere che tra un po' usciamo, che ne dici di fare un giro?"

"Sarebbe un piacere, dove ci vediamo?"

"Vediamoci al Pendleton alle 10:00, essendo tu e Daniel di Portland potreste farci da guida!"

"Perfetto!"

Controllai l'orario: 9 del mattino, cioè solo un'ora di tempo per prepararmi ed arrivare a destinazione.
Dopo aver evitato una mezza crisi in completo panico mi alzai e mi preparai, per poi ricordarmi che quel giorno non sarei andata a suonare in città, per stare con questi ragazzi, di conseguenza non avrei guadagnato un soldo e questo mi fece ricordare la dura e triste verità: ero momentaneamente disoccupata. Ripeto: avevo i soldi solo per pagarmi un anno di affitto, già mi venne in mente l'immagine di una me frustrata sotto i ponti poiché incapace di chiedere ai miei genitori una mano per il troppo orgoglio che mi impedisce di dire che avevano ragione, immediatamente realizzai che dovevo trovarmi un lavoro il prima possibile. O far diventare la musica il mio lavoro.

Tornai sulla terra e scacciai quel pensiero uscendo di casa, mi sentivo un po' più sola ultimamente. Non più solamente nella musica, ma in generale. Oh, non si trattava della mia famiglia; sentivo spesso i miei genitori e mi hanno sempre motivato ad inseguire ciò che amo.
Era qualcos'altro, per il quale necessitavo del tempo per riuscire a capire. Era un vuoto, un vuoto che prima forse non c'era, oppure c'è sempre stato ma solo ora iniziavo a sentirlo. C'era qualcosa di strano, qualcosa di complicato, oppure di semplice ma che la mia mente non riusciva ad accettare. Persa nei miei pensieri mi ritrovai dispersa nella piazza principale di Portland, guardai l'orologio al mio polso, ore 10:01. Mi guardai intorno e poi vidi cinque ragazzi seduti su degli scalini, qualcuno al telefono e qualcun altro che scherzava. Nervosamente mi avvicinai, qualche passo lento, perché il giorno mi metteva l'ansia? La notte sono così tranquilla e me stessa, come mai il giorno sembro terrorizzata? Troppi pensieri negativi quella mattina, fortunatamente venni distratta da Zach, che mi salutò, seguito dagli altri.

"Ciao" mi disse.

"Hey, buongiorno" risposi con un sorriso.

"Per caso hai già fatto colazione?"

"Mh no a dire il vero"

"Speravo lo dicessi, hai fame?"

"Un po'"

"So dove andare, o per lo meno lo sa Daniel" disse sorridendo.

Guardai Daniel per cercare di capire quale posto avesse scelto, in seguito mi disse il nome di un café, che non era quello che pensavo scegliesse, ma in ogni caso una volta arrivati mangiammo dei pancakes buonissimi. Iniziai a parlare con Daniel e mi raccontò della sua vita tra Vancouver e Portland.

"Sono di Vancouver, una piccola città qui vicino, sono andato a scuola lì sin da piccolo, è solo che non c'era poi così tanto da fare. Allora una sera mentre mio padre mi insegnava a suonare la chitarra, gli raccontai di quanto mi sarebbe piaciuto esibirmi in pubblico e suonare la musica per gli altri. Così il weekend successivo mi portò a Portland e suonammo insieme per strada, eravamo i cosiddetti buskers. Già mi sentivo felice ed è lì che capii che era quello ciò che volevo fare nella vita. Mi innamorai della città e almeno una volta alla settimana io e mio papà ci recavamo lì per suonare, io soprattutto per cantare. Poi realizzai di volere qualcosa di più e così andai ad American Idol, e lì iniziò tutto."

Il cielo di Portland | Zach Herron, Why Don't We.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora