E' sempre complicato trovare le parole per cominciare una storia, soprattutto quando si vuole raccontare qualcosa così difficile da comprendere.
Come si può concretizzare un ricordo, un'emozione, un momento e renderli tangibili, quasi come se stessero accadendo nel momento esatto in cui rimembri, in cui ne parli?
Fare un grosso respiro e dirti: "Sì, è il momento".
Non è mai semplice trasformare in parole ciò che è racchiuso nelle tue memorie ed ha una forma tutta sua, plasmata dai tuoi ricordi, soprattutto quando il solo pensiero ti fa sanguinare il cuore, riaprendo ferite mai completamente cicatrizzate.
Ed è in alcune sere che poi accade l'impossibile.
Sere in cui il passato torna a prenderti, confondendosi con il presente e mascherandosi per non farsi riconoscere, nascondendosi in un sussurro che continua a seguirti, mentre cammini e non riesci a capire da dove provenga.
Se l'eco di quella risata che continui a sentire sia solo nella tua testa o sia reale.
Ed è proprio in una sera che non mi aspettavo, che l'ho rivisto.
In un paesino di tremila abitanti, dove il tempo sembrava essersi congelato, in un vecchio castello del 1754 il sindaco aveva indetto un ballo in maschera.
"Il ballo dei fantasmi" lo chiamavano, dove avremmo danzato tutta la notte tra le alchimie di vecchi valzer e le mura di un maniero che aveva visto i tanti volti della storia mutare, anno dopo anno, attraverso i secoli.
Avevo sempre amato tutto ciò che rievocasse il passato nelle sue sfaccettature più tenebrose e misteriose.
Storie del millequattrocento o del millesettecento, intrise di leggende surreali su vampiri e spettri che perseguitavano povere donzelle spaventate.
E poi avevo sempre amato gli anni '40.
Sebbene fossero stati alcuni degli anni più sanguinosi della storia dell'umanità, non riuscivo a non pensare che in mezzo a tutta quella oscurità, ogni persona potesse avere una luce che li aiutasse a mantenere viva la speranza.
Io, almeno, so di averla avuta.
Eravamo pronti ad immergerci in un'altra epoca, in quella fredda notte di Dicembre, stretti nei nostri cappotti mentre percorrevamo una stradina poco illuminata, silenziosa, quasi estrapolata dalla realtà.
Il cielo era ormai alla ribalta e puntellato di stelle, lo spicchio di luna brillava alto in quella volta nera come le piume di un corvo, e dalle finestre del castello splendevano i riflessi tremolanti delle candele accese.
La mia biondina stringeva forte il braccio del suo ragazzo, aveva paura di inciampare sui tacchi che non era abituata ad indossare. Il suo vestito verde di raso era l'unica nota di colore in quella notte così scura, insieme al colore dei suoi capelli e ai suoi occhi azzurri.
Io, dal canto mio, ero aggrappata al mio migliore amico, e l'eco delle nostre risate malamente contenute si espandeva nel silenzio che ci accompagnava all'entrata.
Un grosso albero di Natale brillava al centro del giardino con ciottoli bianchi, nastri rossi correvano tra i suoi rami fino ad andare a formare un fiocco proprio sulla punta.
Un uomo vestito di nero ci fece strada su per uno scalone in marmo poco illuminato, antico, fino a farci percorrere anche una seconda rampa di scale ed arrivare su di un piano dove giacevano candelabri scuri adagiati sul pavimento, con la cera rossa che pian piano gocciolava sotto la fiamma delle candele.
Più avanzavamo, più crescevano di intensità le note di un valzer che mi sembrava di aver già sentito in precedenza, da qualche parte.
Ma per quanto mi sforzassi, non riuscivo proprio a ricordare dove potessi averlo ascoltato.
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L'ultimo valzer con te || One Shot
Short Story"Signorina mia, lontano da te il tempo passa troppo lentamente. Qui fa caldo, ma il cielo così azzurro e il mare poco lontano mi ricordano la Sicilia, facendomi sentire più vicino a te. Ottobre mi sembra così lontano, eppure conto i giorni che mi se...