Sentiva i denti stringersi da soli.
Sempre di più.
Sempre di più.
La magia cercava di infrangere i confini del suo corpo, di trovare un sfogo, un modo per gridare senza fare rumore.
Merlino chiuse gli occhi: sulla cornice della finestra si disegnò una crepa sottile, scricchiolante come un ramo che si spezza.
Diede un pugno alla parete, il respiro accelerato.
-Merlino, cerca di calmarti per favore-
Se non fosse stato Gaius a rivolgergli quelle parole probabilmente avrebbe urlato una bestemmia in risposta. Si limitò a lanciargli un'occhiata a metà fra l'accigliato e l'incredulo.
-Artù è fuori da tre lune ormai: sarebbe dovuto essere di ritorno all'alba-
-Ma il sole non è ancora tramontato, quindi che differenza potrà mai fare qualche ora?-
Merlino ricacciò in gola parole acide, grazie al buon senso e a quell'ormai conclamata prudenza che aveva imparato a portarsi dietro come un'ombra.
Nell'ultimo anno era diventata pesante, assumendo più i contorni di un fardello che quelli di un segreto.
Ma quel pensiero, sebbene gli avesse levato il sonno prima che Artù partisse, si era annichilito.
Le truppe di Lot avevano attaccato uno dopo l'altro i villaggi che si trovavano fra i possedimenti a ovest del regno di Albion, uccidendo, razziando e depredando.
Contemporaneamente, un'epidemia di febbre aveva decimato l'esercito causandone il progressivo restringimento.
Per quanto palese fosse la certezza che quella non era una coincidenza, nel giro di pochi giorni era emersa la necessità di trovare una soluzione adeguata e veloce.
Artù era partito in tutta fretta, con i pochi uomini ancora in salute, confidando nell'invio di rinforzi e lui, Merlino, era stato costretto a restare fra le mura della città, sfruttando il proprio potere per estirpare il male da ogni corpo abbruttito e febbricitante che Gaius e pochi altri volontari, portavano nello studio del medico, il quale, prima rendeva incoscienti i malcapitati con potenti salassi poi, lasciava a lui il compito di fare il resto. Merlino aveva curato in tre mesi almeno duemila persone, lavorando su più fronti contemporaneamente: aiutando Gaius a preparare rimedi ricostituenti e rimettendo in sesto i soldati affinché potessero raggiungere Artù. Era il solo modo che aveva a disposizione per aiutarlo.
Ma dentro urlava.
Era sempre andato con lui, in capo ai confini del mondo, in missioni suicide, imboscate, duelli. Anche quando Artù non conosceva il suo segreto e dunque poteva usare la magia solo di nascosto. Era un rischio ma ci andava comunque e non perché era il suo destino. Lo seguiva perché Artù era una specie di filo conduttore per tutto il suo essere.
Aveva cominciato col trascinare i suoi pensieri poi, aveva fatto lo stesso col suo corpo.
Per molto tempo era stato certo di non possedere segreto più grande della magia.
Si era sbagliato.
-Lo so che scalpiti ma non temere: sai bene ormai che se fosse in pericolo o morto, lo sapresti prima degli altri- lo rassicurò il vecchio.
Era vero. Non solo perché i messaggeri portavano notizie innanzitutto a Gwen che li informava subito, ma anche perché Merlino aveva una specie di personale galoppino: Kilgharrah sorvolava le terre in cui si combatteva ogni giorno. Ogni notte, Merlino si alzava, si recava nella radura oltre i campi di grano e si informava di ciò che succedeva fin nei minimi dettagli.
Non prima di aver chiesto se Artù era vivo.
Non sono vere quelle storie che dicono che quando una persona a cui tieni sta male o muore, lo senti.
Merlino lo aveva capito quando un mese e mezzo dopo la partenza dell'esiguo esercito, il Drago gli aveva comunicato che Artù era stato ferito, anche se non gravemente.
Era accaduto la notte prima e lui dormiva.
Non aveva sentito niente: nessun dolore, nessun tuffo al cuore, perfino la sua magia non aveva reagito, come si aspettava che si succedesse. Non aveva avvertito nessuna di quelle sensazioni di cui si raccontava nei romanzi d'amor cortese che qualche volta aveva visto fra le mani di Gwen, quando passeggiava per i corridoi del castello.
Artù aveva sofferto e lui dormiva della grossa.
Forse quella definizione era un po' azzardata perché non si sarebbe potuto dire che batteva la fiacca. In quei tre mesi non aveva mai riposato per più di tre ore consecutive tanto che il suo fisico ne aveva risentito ed era dimagrito. La lontananza di Artù dilatava il tempo, lo centellinava in uno scorrere insopportabile.
Aveva pensato e proposto a Gaius di partire almeno una dozzina di volte ma quelle discussioni presto erano diventate a senso unico. Lui si arrabbiava, sbraitava che voleva andarsene e Gaius continuava a lavorare e il silenzio si mangiava le urla che era stato sul punto di liberare.
Sapevano entrambi che erano progetti infattibili: se fosse andato via, Camelot avrebbe perso il suo baluardo più potente.
Poi, quando dopo un'ottantina di giorni, i druidi avevano comunicato loro di aver trovato e debellato il focolaio dell'infezione, uccidendo gli stregoni alleati di Morgana, Merlino aveva deciso di partire.
Cinque minuti dopo che il messaggero era sparito da Ashetir, luogo segreto in cui si erano incontrati, già ciarlava a Gaius di come avrebbe potuto organizzarsi, di quanti rimedi più o meno avrebbe dovuto preparare prima di andare via, di cosa avrebbe dovuto portarsi dietro.
Era tornato a Camelot e aveva speso i due giorni successivi a medicare, lavorare e consumare la sua magia come una candela mangiata dal fuoco.
Gaius lo aveva fissato in più di un'occasione come fosse incerto sul suo stato mentale e per una volta quel dubbio non era ironico, perché in quei tre mesi Merlino aveva messo a dura prova la sua pazienza, dandogli modo di capire quanto in là si fosse spinto il senso del dovere che provava nei confronti di Artù e di quello che avevano.
Aveva sbuffato, scalpitato, si era arrabbiato e aveva supplicato di lasciarlo andare che tanto non serve a niente che io stia ancora qui!
Aveva minacciato di mandare all'aria l'intero destino del regno, abbandonando soldati ed erbe partendo di soppiatto per raggiungerlo.
Si era rattristato, si era chiuso in un silenzio ostinato. Insomma aveva mostrato al vecchio tutti i lati impulsivi e infantili del suo carattere e che in genere venivano smussati dall'aura di eroe per bene.
Gaius aveva dimostrato una pazienza fuori dal comune: gli aveva fatto poche domande, si era preso cura di lui, lo aveva sopportato senza giudicare, al massimo esprimendo scetticismo con il famigerato sopracciglio.
Non che non fosse una persona intuitiva e che a Merlino quella sua qualità non avesse fatto paura in più di un'occasione ma onestamente, di fronte ad una così grande preoccupazione per l'assenza di Artù dalla propria vita era diventato sordo e cieco.
Probabilmente, se il vecchio gli avesse chiesto se erano vere le voci che circolavano su di loro e di cui tutti, Gwen compresa, erano a conoscenza, lui si sarebbe fatto una fortissima risata, unica reazione che si meritava quell'assurda situazione.
E poi avrebbe cominciato a sbraitare di voler partire per le terre ad ovest.
Cosa che non aveva più fatto, alla fine.
Due giorni dopo aver parlato con gli stregoni druidi, era giunta notizia della vittoria di Albion: l'esercito sarebbe tornato una settimana dopo.
Era stato come se il fluire della sua esistenza riprendesse da dove aveva lasciato.
Da notti passate dietro porte sbarrate, da sorrisi celati in un modo di ciechi, da parole rubate al tempo, nascosti dietro il manto della notte. Da quel momento lavorare non era stato più stancante e si era sentito costantemente in bilico sull'orlo di un precipizio.
Aspettava solo che Artù lo tirasse indietro.
**
Eppure il tramonto arrivò e passò.
Il sole incendiò il cielo e la notte lo spense e nuvole scure coprirono Camelot lasciando poche briciole di luna.
Le guardie che pattugliavano i confini avevano ricevuto un messaggio dall'esercito di Artù: i soldati erano caduti in un'imboscata dalla quale fortunatamente erano riusciti a fuggire ma il numero dei feriti era alto, per cui procedevano a rilento. Le condizioni del re erano tranquillizzanti. Era molto provato ma non ferito in modo grave.
Tranquillizzato da quelle notizie Gaius si era addormentato subito ma a Merlino sembrava che quella serie di intoppi fosse solo un crudele scherzo del fato per fargli perdere quella poca dose di pazienza conservata a morsi, ridotta a brandelli in quei dannati tre mesi e due giorni.
Però mentre si preparava in tutta fretta, le guardie in corridoio, i passi di Gwen su per le scale, Artù gli aveva raccomandato a mezza bocca di non farsi prendere dal panico, di non fare sciocchezze e di agire sempre con giudizio e lungimiranza.
In altre parole: non farci scoprire.
Merlino si era mangiato il fegato.
La prossima volta che sarebbe toccato a lui partire e lasciarlo indietro gli avrebbe fatto capire a suon di ansia il significato della frase "Non farci scoprire".
Se ne stette a fissare le luci della città spegnersi come piccoli falò in lontananza, poi s'inoltrò nei corridoi bui, diretto in un posto che nell'ultimo anno aveva assunto un significato diverso per lui.
Salì silenziosamente, facendo crollare addormentate le uniche due guardie che pattugliavano la porta delle stanze reali, per proteggere Gwen. Il resto dei guerrieri stazionava oltre i confini. In pratica Camelot doveva proteggersi da sola, ecco perché lui non era potuto partire.
Raggiunta la porta che cercava fissò la maniglia per qualche secondo poi si rifugiò all'interno senza fare rumore.
Non guardò nulla delle poche cose rimaste lì dentro, andò dritto verso il letto a baldacchino e ci si sedette sopra, le mani affondate fra le lenzuola impolverate, gli occhi chiusi.
La vecchia stanza di Artù gli parlava con la confidenza che avrebbe usato un amico. Poteva sentire attorno il peso dei ricordi di ogni singolo oggetto, la polvere sotto i polpastrelli, le voci che circolavano da mesi dentro e fuori le mura ma che lì non erano riuscite a infiltrarsi.
Poteva disegnare a mente ogni intreccio che i loro corpi avevano creato in mezzo a quella polvere, dipingere ogni ombra dissipata dalle candele che poggiavano sempre a terra. Era vero.
Era tutto vero.
Ma nonostante le risatine, i mormorii, gli sguardi derisori oppure ostili, nonostante l'indifferenza di Gwen e il malcelato dubbio nascosto negli occhi di Gaius, a lui non importava.
Avrebbe sopportato tutto pur di averne ancora di lui.
La porta scricchiolò.
Merlino alzò gli occhi di scatto e per istinto andò a nascondersi dietro l'armadio di Artù, sporgendosi appena, pronto a scagliare un incantesimo alla prima guardia che fosse entrata a controllare.
Sollevò la mano, la tensione in ogni muscolo.
Di colpo l'uscio si aprì: lui uscì dal suo nascondiglio a braccia tese ma si congelò dov'era: gli occhi impressi in un volto sfigurato dalla stanchezza che vagarono per interminabili secondi su di un corpo di cui avrebbe riconosciuto ogni spigolo e ogni curva, perfino da cieco.
Artù lo fissava come se fosse arrivato all'obbiettivo dopo una vita di tentativi, il viso sporco, un rivolo di sangue lungo la tempia sinistra. I capelli più lunghi gli sfioravano le guance. Nei pochi secondi in cui lo guardò Merlino registrò i dettagli maggiori ma non si prese altro tempo: avanzò fino a chiudere la porta e lo strinse a sé.
Artù restò immobile per qualche secondo, ancora leggermente piegato, poi un braccio salì lentamente a toccargli la schiena, serrandosi forte, il viso affondato nel suo collo, un gemito di frustrazione fra le labbra.
Merlino lo abbracciò più stretto, toccando le spalle, gli zigomi, spostando le ciocche di capelli per controllare che non ci fossero altre ferite. Artù chiuse leggermente gli occhi mentre lo faceva.
Solo dopo essersi accertato che non ci fossero problemi gravi lo baciò, premendo la bocca contro la sua nel tentativo di ritrovare la forma di sé impressa mesi prima.
Appoggiò la fronte contro la sua e chiuse gli occhi. la bocca gli faceva male.
Sentì Artù sorridere.
-Spero che non ti sia comportato da idiota mentre non c'ero-
L'unico rumore della stanza era quello dell'acqua che ricadeva in una piccola cascata ogni volta che Merlino sollevava la pezzuola, passandola piano sulla schiena di Artù, sulle braccia, sul collo, lungo la fronte.
Procurarsi dell'acqua calda per un bagno in piena notte sarebbe stato impossibile ma per fortuna Merlino possedeva un dono. Che non era la magia.
Era la capacità di intuire quando l'uso della magia sarebbe stato così necessario da impedire ad Artù di arrabbiarsi per tutte le volte in cui lo aveva riempito di bugie e che ancora faticava un po' a lasciarsi alle spalle.
Lo aveva spogliato lentamente e mentre lui entrava nella tinozza aveva scelto dell'essenza al gelsomino dal mobiletto di fianco al letto. Era lì da oltre un anno ma poteva ancora essere usata. Il tappo era impolverato, l'etichetta sbiadita dato che quella stanza non la usavano da una vita. Merlino non si prendeva più cura di lui da tempo, il matrimonio con Gwen aveva profondamente cambiato quell'aspetto delle loro esistenze.
Aggiunse qualche goccia di olio essenziale di lavanda e tornò da lui, accudendolo in silenzio, immergendosi in quel limbo di segreta stanchezza in cui sembrava imprigionato Artù che teneva gli occhi bassi e abbassava appena le palpebre quando cercava di ripulire la tempia dalla sporcizia e dal sangue.
La ferita in testa non era profonda e per prima cosa Merlino l'aveva cicatrizzata con la stregoneria, cancellando qui e lì i lividi che trovava, fino al più piccolo taglio.
Artù era insolitamente remissivo, segno che il suo corpo era davvero al limite delle forze, sia fisiche che mentali. In genere non amava che usasse la magia per eliminare le ferite procurategli dalla guerra. Da quando aveva sposato Gwen ogni guerra era buona per punirsi, ogni sofferenza poteva servire a sbiadire il suo senso di colpa.
Merlino gli chiese se aveva dolore da qualche parte. Rispose di no.
C'era una sorta di imbarazzata disabitudine, era qualcosa che si intuiva appena ma Merlino se n'era accorto. Quando gli aveva sfilato la cotta di maglia. Quando gli aveva lavato la schiena rimboccandosi le maniche della casacca.
Artù non lo aveva guardato per tutto il tempo e lui aveva l'impressione di toccare un corpo che faticava rispondere al suo contatto.
Se accennava qualche gesto troppo brusco lo sentiva sobbalzare leggermente.
Si chiese, le labbra serrate, quali sofferenze avesse patito in quei tre mesi per reagire in quel modo.
Era dimagrito. Le costole erano più sporgenti, le guance più incavate, le spalle meno possenti di come le ricordava la sua memoria tattile. La barba era sporca ma non così lunga come si sarebbe aspettato. Ad Artù cresceva lentamente ma finiva per rovinare la bellezza del suo viso, lo oscurava sotto anni che non aveva realmente. La cancellò con la magia. La disfece, la distrusse completamente, facendola sfiorire come petali sbriciolati al gelo dell'inverno.
Sfiorò le vertebre maggiormente in evidenza ma notò che Artù lo osservava con la coda dell'occhio. Se ne accorse un momento prima che deviasse lo sguardo.
Non lo toccò più con così tanta attenzione. Finse di non accorgersi di niente.
Si limitò a lavarlo, bagnandogli i capelli e passandoci dentro le dita. Erano così cresciuti che tutti da un lato toccavano lo zigomo.
Inclinò un po' il capo, a braccia incrociate.
-Non li tagliare-
Artù sbatté le palpebre, poi fece spallucce, un mezzo sorriso trattenuto.
Allungò la mano per avere gli asciugamani ma Merlino non glieli passò, si portò alle sue spalle e iniziò ad asciugarlo con accortezza, curando qualche livido di cui non si era accorto senza nemmeno pronunciare incantesimi. La sua magia reagiva e vibrava da sola alla presenza di Artù.
Lui lo guardava da sopra la spalla, il profilo più sottile alla luce delle poche candele che aveva sparso in giro.
A Merlino sembrò quasi uno sguardo glaciale.
-Lasciami fare- gli chiese.
Artù si prese ancora un momento poi ricacciò in gola l'imbarazzo e gli diede carta bianca.
Gli raccontò che le sue truppe erano ancora a tre leghe di distanza da Camelot e che durante l'imboscata in cui erano caduti era stato fatto prigioniero e portato nelle segrete di un vecchio castello usato in tempi antichi dai contrabbandieri. Lo avevano creduto un soldato comune e gli altri si erano ben guardati dal rivelare la sua identità.
Era stato picchiato, torturato e deriso. Gli avevano urinato addosso e lo avevano affamato, profondendosi con impegno in tutte le disonorevoli attività che caratterizzavano la vita dei mercenari.
Merlino lo ascoltò parlare in silenzio, consapevole che il proprio corpo non riusciva a mascherare la rabbia. Più volte infatti strinse con forza la pelle di Artù mentre passava l'asciugamano con lentezza, le labbra serrate, i denti che scricchiolavano per la voglia di compiere una carneficina.
Artù gli raccontò che gli altri soldati, sebbene feriti e stanchi, li avevano tratti in salvo e nella confusione generale lui aveva ucciso una guardia, rubato un cavallo ed era fuggito.
A quel punto Merlino sollevò gli occhi su di lui e vide proprio ciò che temeva: il disprezzo di sé, la frustrazione ma anche l'egoismo. Quell' egoismo malato che nell'ultimo anno lo aveva reso la persona più orgogliosa dell'intero regno, in segreto.
-Li ho lasciati indietro Merlino- sussurrò, la voce infranta da una nota di stanchezza.
-Vi avranno chiesto loro di mettervi in salvo-
-Li ho lasciati indietro- ripeté, scandendo ogni sillaba. –Certo, quando sono tornato ho chiesto che non fosse dato l'allarme e che gli ultimi soldati in salute si recassero subito da loro con acqua e viveri per rifocillarli lungo la strada. Ma ciò non toglie, che me ne sono andato- disse –C'erano feriti. Alcuni non vedranno l'alba. E io li ho lasciati indietro-
Merlino si allontanò e poggiò l'asciugamano sulla sedia, iniziando scioccamente a piegarla, seguendo il desiderio di fare qualcosa che lo tenesse occupato e gli impedisse di dover replicare.
In genere Artù non la voleva una risposta quando gli diceva quel genere di cose, rimarcando quanto lo avesse incatenato a quel posto pur usando parole meno esplicite. Eppure lo guardava ogni volta come se volesse essere accusato di qualcosa. Forse voleva che gli dicesse che persona perfida fosse.
Oppure voleva semplicemente che lo ascoltasse e condividesse un po' di quella colpa che ormai stava facendo a pezzi le loro vite.
-Ne sei pentito?- gli chiese Merlino, mangiandosi le lettere per quanto gli tremava la voce.
-Certo che lo sono. E faccio bene-
Il mago sentì un groppo in gola.
-Mi pento ogni giorno di ciò che sono diventato- disse Artù, riempiendo il silenzio con passi lenti ma decisi. Le sue mani gli si strinsero intorno ai fianchi, la sua bocca gli parlò contro l'orecchio.
-Ma dura un istante-
Merlino si sentì voltare e togliere l'asciugamano dalle mani.
Lo sguardo di Artù era glaciale.
-E non sono sincero, Merlino. Il mio pentimento non è mai vero, sono troppo egoista per permettermi la sincerità-
Sollevò il dorso delle dita e gli toccò il mento. Non si concedeva mai contatti di quel genere. Da quando ciò che avevano era diventato una prigione la sensibilità era qualcosa che Artù aveva affidato alla notte, ai momenti in cui smetteva la corona e tornava un ragazzo qualunque e lo prendeva senza lasciargli spazio per l'imbarazzo, in un modo così vero, che certe volte Merlino aveva avuto voglia di gridare.
Artù aveva rivoltato la sua anima, tirando fuori lati del suo carattere che, c'erano lo sapeva, ma non pensava sarebbero mai venuti fuori.
Si era quasi scordato che era completamente nudo, abituato a quella visione da anni di routine e da una serie di cose che sarebbe stato meglio non citare. Perciò quando Artù gli divaricò le cosce con un ginocchio spingendosi contro di lui, quasi si vergognò del fatto che il proprio corpo reagisse in maniera così repentina e provò con tutte le forze a non rilasciare un gemito contro il suo orecchio. Lo liberò attraverso i denti.
-Gwen non sa che sei tornato... dovresti andare-
-E' davvero la prima cosa che vuoi farmi fare?-
Il suo sussurro si sciolse contro la pelle, mandando una scarica di adrenalina dritta alla bocca dello stomaco. Credette che il cuore sarebbe esploso nella cassa toracica. Non per la sua voce o perché il sesso con lui gli era mancato così tanto da stare male. Era il modo in cui Artù glielo stava chiedendo.
Non c'era malizia. C'era soltanto un doloroso desiderio, represso dalla distanza, dalla paura che la guerra potesse dividerli, che quello sguardo scambiato in fretta alle porte del castello e che aveva gridato "Tornerò", potesse essere l'ultimo.
Artù aveva una maniera di consegnarsi nelle sue mani che della resa aveva ben poco eppure era capace di scaldargli qualcosa dentro, di dare fuoco a ogni suo freno.
Forse gli aveva risposto, un secondo dopo già non se lo ricordava, aggrappato alle sue spalle, al suo viso, ai suoi capelli, la bocca contro la sua, un ansito d'impazienza sfuggito alla gola.
Solo un bacio.
Solo la nostalgia, la paura che trovava uno sfogo.
E poi le mani di Artù contro le guance e sulla pelle e sotto le pelle e dentro le ossa.
L'alba era ancora lontana. Potevano permettersi di sbagliare di nuovo.
Le dita si aggrapparono alla testiera del letto mentre il suo corpo si riempiva tutto e la voce si strozzava in gola e lo sguardo perso di Artù era tutto ciò che riusciva a vedere mentre la luce delle candele che moriva dilatava il silenzio e il rumore dei suoi fianchi che sbattevano contro quelli dell'altro mentre le spinte di moltiplicavano.
Si moltiplicavano.
Si moltiplicavano.
Merlino si aggrappò alle sue spalle, lo abbracciò, lo morse, spalancò la bocca contro i suoi capelli.
Sentì la mano sinistra di Artù abbandonare la sua schiena e prima che potesse impedirglielo cominciare ad accarezzarlo. Un tocco prima lento, poi più ruvido, più caldo, più veloce, tanto che dovette allontanargli il polso bruscamente.
Quel gesto li scoordinò. Artù lo fissava, gli zigomi arrossati, quei capelli più lunghi a oscurare appena la fronte. Merlino li scostò all'indietro. Artù abbassò le palpebre per un momento, il collo teso verso di lui quando ricominciò a spingere lentamente, fino in fondo, socchiudendo un po' la bocca.
Le dita di Merlino scivolarono sul suo collo, il viso che subito cercava di nascondersi ma che subito Artù riportò su di sé, guardandolo con una calma che era solo apparente.
Fronte contro fronte.
Merlino strinse i denti: non avrebbe gridato.
Anche se ne aveva una voglia tale da sentire dolore non avrebbe distrutto quel silenzio, stava custodendo il loro segreto. Ma poi Artù cambiò angolazione e lui dovette afferrare un cuscino alle loro spalle per trattenersi dal lasciarsi andare, i muscoli del braccio guizzanti contro la pelle pallida.
Eppure c'era una parte di lui, una di quelle che Artù aveva tirato fuori a cui piaceva il dolore. Gli piaceva sentirsi spaccare in due e gli piaceva, ( anche se non l'avrebbe mai ammesso e pregava che il suo corpo non lo tradisse mai a quel proposito) , che Artù lo guardasse mentre andava in mille pezzi.
Improvvisamente si sentì spostare di peso e avvertì la morbidezza delle lenzuola dietro le schiena: Artù gli diede appena il tempo di prendere un respiro e ricominciò ad affondare nel suo corpo, senza trattarlo come una cosa fragile come tutto il mondo faceva.
Quando lui voleva, Artù smetteva di guardarlo come se dovesse rompersi da un momento all'altro e dovunque si trovassero, chiunque ci fosse intorno, gli strappava via l'aura da eroe delicato e lo riduceva esattamente a quello che era: un ragazzo che certe volte metteva via il pudore e abbandonava il capo contro un muro o una colonna e si lasciava andare come se lo stesse prendendo lì. Combatteva un silenziosa battaglia interiore ma cedeva sempre. Sempre.
Mentre la corte intorno parlava o Gaius lavorava e il mondo continuava a girare e tutti mormoravano, puntavano il dito, accusavano.
Affondò le unghie nelle sue natiche e lo spinse più a fondo, spingendosi contemporaneamente contro di lui e lo guardò, mordendosi il labbro per non emettere un suono mentre Artù affondava più veloce, più forte, fino a che Merlino non lo sentì impazzire dentro di sé e si lasciò andare, soffocando un grido contro la sua mano, lasciando che l'altro zittisse la sua voce come aveva fatto con il suo desiderio.
Lo sentì mordergli una spalla, un urlo soffocato contro la sua pelle. In un punto diverso.
Li stava raccogliendo tutti. Tenendoli al sicuro, nelle vene.
Abbandonò la guancia sulle lenzuola, le dita dell'altro che lo lasciavano lentamente andare e il suo respiro contro il collo.
Restarono così per un po', il viso di Artù sul suo petto, il suo braccio intorno al fianco.
Quando lo sentì addormentarsi, cedette al sonno anche lui.
C'è un momento nella vita di una persona in cui ci si avvicina un po' di più a capire cosa significa conoscere qualcuno. Dicono tutti che il momento è quando guardi quel qualcuno dormire. Invece a Merlino c'era qualcosa che piaceva di più: quando Artù pensava che fosse lui a dormire si alzava e andava alla finestra o davanti al camino e lasciava che i pensieri lo invadessero.
A lui piaceva guardare Artù pensare, così poteva osservarlo, imprimere nella memoria per l'ennesima insopportabile giornata di finzione, ogni spigolo e ogni curva del suo corpo.
Per il tempo di una vita. La sola che avrebbero avuto.
Artù non si accorgeva quasi mai che lo osservava, disteso su un fianco, briciole di candele ad accarezzare quel pudore che aveva completamente perso.
Quella notte Merlino era a pancia in giù, il mento sulle braccia piegate, i capelli tutti in disordine, il segno del morso di Artù appena visibile sulla pelle arrossata.
L'altro aveva acceso il camino e se ne stava appoggiato al bordo del tavolo, le mani sul legno, dandogli la schiena. Si voltò un poco verso di lui, quelle ciocche di capelli più lunghe lo facevano sembrare più adulto.
Era stato bello affondarci le mani.
-Fin dove si sono spinte le voci?- chiese.
Merlino parlò senza distogliere lo sguardo.
-Abbastanza lontano da arrivare a Gwen-
Artù annuì, inumidendosi un poco le labbra e allontanando l'attenzione da lui.
Merlino sapeva che la cosa gli creava problemi. Non aveva mai pensato il contrario e neanche gliene avrebbe fatto una colpa.
Per un po' l'unico suono nella stanza fu lo scoppiettio del fuoco.
-Pensavo di andare via, per qualche mese-
Artù si voltò di scatto, incredulo.
-Sei in vena di ironia?-
Quando fu chiaro che non lo era, gli avvicinò, sovrastandolo. Merlino continuò a fissarlo nella stessa posizione di prima, sollevando solo gli occhi.
-Non avrei mai pensato di sentire queste parole uscire dalla tua bocca.
-Non è per me che lo farei-
-Così come credevo fossi diventato leggermente meno altruista-
Artù gli parlava da sopra, senza dargli neppure il tempo di dare voce a una sillaba.
Merlino sospirò, si passò le mani fra i capelli e si alzò, guardandolo a braccia incrociate.
-Guarda che tornerei-
-E a cosa servirebbe?-
-Non lo so... magari le metteremmo a tacere per un po'-
-Le confermeremo, lo sai. Le sto confermando con ogni cosa che faccio, non c'è azione che mi scagioni ai loro occhi. Perfino se mettessi al mondo un erede continuerebbero a insinuare che mi porto a letto il mio servitore-
Merlino abbassò lo sguardo.
Ogni volta che il discorso deviava in quella direzione, il suo cuore ammutoliva. Il solo pensiero che potesse legarsi a Gwen in quel modo lo distruggeva. Non tanto per l'amore fisico. Artù era già stato con Gwen prima che le cose precipitassero e già quella verità era stata difficile da mandare giù. Anche se Artù avesse dovuto possederla per dovere e nella remota ipotesi che lui fosse sopravvissuto alla frustrazione di saperlo, un figlio cambia le cose. Lega due persone in una maniera che va oltre il sesso, oltre la dipendenza fisica e le liti e i problemi.
Un figlio sarebbe stato un laccio invisibile, difficile da spezzare. Era la sola cosa più magica della magia.
-Voglio solo- inghiottì a vuoto –Essere d'aiuto-
Era perfettamente consapevole che Artù aveva colto la sua frustrazione, perché ogni volta non riusciva mai a placare il dolore che si espandeva nel petto se solo accennavano alla questione.
-Allora non andartene, lo sai che non m'importa. Lo direbbero di ogni re o regina, per loro esistono solo amori infedeli-
Il cuore di Merlino saltò un battito.
Aveva praticamente circumnavigato il concetto di quello che avevano. Si chiese se ne era consapevole.
-Lo so che t'importa di questi dannati mormorii, almeno non fingere con me- sbottò.
Artù si sfregò gli occhi con le dita.
-Devo ancora qualcosa a Gwen. Ma m'importa più di te, non farmi essere più esplicito-
Gli venne da sorridere.
Artù gettava il pudore dalla finestra quando facevano sesso e poi si vergognava delle parole. Forse perché, per lui dicevano più di tutto il resto.
Si rese conto che lo stava fissando, ma era tardi.
-Stai ridendo di me-
-Figurati no!-
Silenzio.
-Stai ridendo di me, Merlino?-
Per tutta risposta si mangiò le labbra.
Artù scosse il capo, esasperato ma con un mezzo sorriso sulla bocca. Poggiò una mano sul suo petto e lo spinse a sedere sul letto. Merlino affondò le mani fra le lenzuola, ancora tiepide.
Lasciò che appoggiasse le mani sulle sue e lo fronteggiò senza staccare lo sguardo da lui, neanche mentre appoggiava un ginocchio sul materasso, portando le loro fronti alla stessa altezza.
-Saremmo dovuti nascere in un'altra epoca- disse -Potremmo rinascere in un'altra epoca?-
Merlino piegò la bocca in un sorriso.
-Non ti prometto niente ma farò del mio meglio-
-Vedi di impegnarti oppure niente giorno libero da oggi in poi-
Lo baciò piano, lentamente, annegò tutta la frustrazione che sentiva nella sua bocca.
-Maledizione Artù, non ti allontanare mai più per così tanto tempo-
Quelle parole si infransero contro il suo respiro.
-E tu aspettami sempre. Anche se dovessimo avere solo il tempo di una vita-