Vigilia di Natale

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Ho dormito così bene che quasi mi dispiace alzarmi. Ma i bisogni fisiologici me lo impongono. Corro svelta in bagno, sbrigo quello che devo fare e torno in camera.
Giusto in tempo per sentirlo bussare.
«Sei sveglia?» domanda con calma.
«Sì, ora esco.» Sono costretta a parlare e non mi piace per niente. Regola numero uno: mai rivolgere la parola a un uomo. Loro ti dicono quando e se parlare.
«Bene, la colazione è pronta. Ti aspetto in cucina.» Sento che si allontana, tiro un sospiro di sollievo.
Rimbocco il bordo dei pantaloni, di modo che non mi cadano continuamente. Mi faccio coraggio ed esco.
Il profumo del cibo è come una calamita: mi attira con prepotenza.
Faccio capolino in cucina, lui sta sistemando i piatti sul tavolo. È ancora in pigiama, ma ha fatto la doccia da poco; lo vedo dai capelli ancora umidi e dal profumo che aleggia nell'aria.
«Buongiorno e buona vigilia. Vieni, prima che si freddi.» Scosta la sedia e aspetta. Mi metto comoda, lui mi serve delle frittelle, inzuppandole con dello strano liquido ambrato.
Titubo un secondo e poi taglio un pezzo. Assaporo quella meraviglia; è davvero bravo a cucinare.
«Buone?» mi guarda con un'espressione allegra. Faccio sì con la testa, riprendendo ad ingozzarmi.
«Gin, dovresti mangiare con più calma» non è il tono secco e duro a cui sono abituata; credo mi stia... Prendendo in giro. Ma non ha del tutto torto, il mio stomaco potrebbe risentire di un improvviso accumulo. Meglio darsi un freno. Lascio che la calma prenda le redini; mi gusto davvero la colazione, per la prima volta. In passato... Beh, sorvoliamo.

«Allora, sono arrivato a un compromesso: dato che uscire ti mette in difficoltà, porterò i negozi qui a casa.»
Spalanco la bocca come una babbea. Com'è possibile che possa fare questo?
«So che la cosa ti stupisce, ma è molto frequente in certi ambienti. Una delle donne che lavorano in negozio verrà qui, con altri membri dello staff, carica di vestiti. Potrai provare tutto ciò che ti piace; gli abiti che penserai ti stiano meglio li prenderemo. Magari, e non è una critica, anche un abito un po' femminile, giusto per le festività» continua a mangiare, a me si è chiuso lo stomaco.
«Perchè, Eric?» chiedo sconvolta.
«Perchè me lo posso permettere. E di certo non puoi stare per tutto il tempo con la mia tuta, anche se ti dona» strizza l'occhio, mi scappa un verso strozzato.
«Non hai più fame?» indica il piatto.
«No, grazie» sii sempre educata con gli uomini, regola numero tre.
«Okay. Mettiamo tutto nel lavello e andiamo a prepararci, saranno qui tra poco.»
Ci alziamo nello stesso istante; portiamo le stoviglie nel pozzetto e... Le nostre mani si sfiorano involontariamente. Stringe le mascelle con forza. Io mi sposto appena.
Poggia le mani sul bordo del mobile e china la testa. Ho fatto qualcosa di sbagliato, ne sono certa.
«Scusa» mormoro.
«Non è colpa tua. Ho solo... Lasciamo stare, non è importante» si rimette dritto, mi sorpassa e aspetta che lo segua.
Il campanello che suona ci coglie a metà strada tra la porta e il soggiorno.
Va ad aprire; sento molte voci, tra cui quella suadente di una donna.
«Lei è Ginevra, la sfilata è per lei» esordisce, rientrando nella stanza con tutta quella gente al seguito.
Sento i loro occhi su di me, lo sdegno e la pietà che trapelano. Vorrei scappare, ma sarebbe offensivo nei suoi confronti.
Siede sul sofà e mi fa cenno di imitarlo. Obbedisco e, non appena mi sono seduta, la donna incomincia a parlare. La sua voce è come le unghie sulla lavagna. È una di quelle persone che mascherano la propria identità dietro un velo di ipocrisia e falsità.
E ho anche capito che è interessata a lui. Si vede bene dalle occhiate che gli lancia di sottecchi.

La sfilata è estenuante, soprattutto per me, nel vedere tutte quelle modelle così perfette, sicure di sé e fortunate. Il che mi porta a non prestare attenzione ai vestiti.
«Guarda gli abiti, non loro» se n'è accorto. Mi concentro e finalmente trovo delle cose adatte. Niente di pretenzioso, piuttosto uno stile semplice e giovanile. Anche se, uno dei vestiti eleganti mi attrae. Certo, non mi starà come alla modella, ma ha sprecato così tanto tempo per me, che mi sembra equo ricambiare.
«Quello... Ehm, quello nero mi piace.»
Un mezzo sorriso, e dice alla donna di metterlo assieme agli altri.
Dopodiché, perdo del tutto interesse, a causa dei miei problemi.
Intuisce che qualcosa non va; raduna gli abiti scelti, paga e congeda tutti.
Siede sul tavolino di fronte a me.
«Non devi vergognarti del tuo aspetto. Non è colpa tua, Gin. E se la gente ti criticherà, ci penserò io.»
Queste parole mi smuovono dentro qualcosa.
«Perchè sei così buono con me?» devo sapere.
Si passa una mano tra i capelli; ma non si tira indietro.
«Per il semplice fatto che so cosa hai passato. Non sono il figlio biologico dei Lancelot, mi hanno adottato. Quando ero molto piccolo vivevo in un posto orribile: povertà, sporcizia e crimine, erano le caratteristiche principali. Vivevamo in una baracca fatiscente, io, mia madre e i miei sette fratelli. Nessuno di noi sapeva chi fosse il proprio padre; nostra madre era una prostituta. Non c'erano gli anticoncezionali, così come non esistevano i consultori. Se restavi incinta, o lo tenevi, o pagavi fior di quattrini per abortire illegalmente. E questo fa capire quanto povera fosse la mamma. Per racimolare un tozzo di pane eravamo costretti a lavorare in condizioni disumane, sfruttati per pochi centesimi. E non erano lavori legali. Eravamo dei piccoli corrieri, capisci?» racconta, con mio sommo orrore.
«Come in quel film ambientato in Messico, con JLo?» cito.
«Esattamente. Ma un giorno, quando avevo all'incirca sette anni, ci fu un blitz dell'antidroga statunitense. Ci portarono via e ci fecero emigrare negli States. Entrai nel sistema e poco dopo venni adottato.»
Mi scende una lacrima, la asciuga col pollice.
«Ok, ti ho intristita fin troppo. Perché non ci vestiamo e usciamo un po'? Devo prendere i regali per i miei, altrimenti...» finge una faccia spaventata che mi strappa un sorriso.
«Va bene. Grazie per tutto, per esserti confidato» le parole escono da sole. Mi prende per mano, afferra i capi più pesanti che ha comprato e ci andiamo a preparare.

***

Ho visto diverse volte la mia città, ma mai mi sono addentrata nei quartieri ricchi. È tutto così diverso, pulito e ben tenuto. La neve cade ancora più copiosa, mi diverte vedere le nostre impronte sull'immacolato strato bianco.
Gli abiti che mi ha comprato non risaltano la mia magrezza come pensavo. Sembro una normalissima ragazza, in giro con un... Amico?
Beh, definirci amici è troppo, nonostante le confidenze che mi ha fatto. Resto comunque molto sospettosa e guardinga; non posso evitarlo.
«Dobbiamo andare al nuovo centro commerciale, ieri dovevo comprare una sciarpa per mia madre. Ma sono stato distratto da un certo salvataggio» anche adesso il suo tono è leggero. A dispetto di quello che ha detto su di sé in cucina: che è distante, duro e freddo. Deve incidere molto il nostro comune passato. Non ho studiato, non sono acculturata, ma so capire cosa scatta nella mente delle persone: sentirsi affini con chi ha percorso più o meno i tuoi stessi passi è un fulcro importante. Non dico un dogma, ma è abbastanza supponibile.
«Un penny per i tuoi pensieri» mi fa tornare al presente.
«La neve, mi piace» mento, sperando di non essere scoperta.
«La neve, d'accordo» beh, mi ha beccata, poco male, a giudicare dalla sua reazione.
Al semaforo aspettiamo il verde e, quando scatta, mette un braccio sulle mie spalle. È un gesto meccanico, che non cela un sottofondo di... Possesso?
Ma non è sempre così? Noi siamo solo cose, oggetti. Lascio fare, non voglio che si indisponga.
«Cose e oggetti? È questo che ti hanno insegnato?» mi sono tradita di nuovo.
«Eric...» ma cosa aggiungere? Non c'è altro da dire, senza vuotare del tutto il sacco. E preferirei morire. Vedrei l'orrore e il disgusto nei suoi occhi, e ora come ora non lo desidero. Mi voglio solo godere questa pace fittizia; per tutto il tempo che mi sarà concesso.
«Non dire niente. Voglio che sia una giornata spensierata e leggera. Parleremo a casa, se e quando sarai pronta. Rispetterò il tuo tempo.»
Parleremo a casa, rispetterò il tuo tempo? Questa faccenda mi turba. Che abbia frainteso, e davvero vuol tenermi con sé?

Entriamo nel centro commerciale, che per me è un po' come il paese dei balocchi. Tutto scintilla, le persone sono così belle nei loro abiti, e immerse nelle loro vite splendenti, giuste. Mi sento davvero un essere inferiore, al loro confronto.
«Il negozio è lì, poi dobbiamo andare in quello di scarpe e, per ultimo, al game store. Non posso scordare mio fratello e mia sorella, mi metterebbero in croce» gli si accende una strana luce, parlando della sua famiglia.
Lo seguo per i veri negozi, sentendomi per la prima volta parte della magia del Natale. Mi diverto anche, soprattutto nel vedere le commesse che quasi si accapigliano per servirlo. Che sia bello non è un fatto da mettere in discussione. Lo è, punto. Ma a quanto pare non è interessato. Mi richiama a sé, chiedendo un parere femminile, come se io me ne intendessi. Lo aiuto a scegliere, e poi lo seguo in questa interminabile, esilarante, nuova avventura.

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