Capitolo 1

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Un azzurro scalzo in cielo

il cielo matto di marzo

e di quel nostro incontro


Un'altra giornata come tutte le altre.

La città si era appena svegliata, salutando il nuovo giorno con un'alba color indaco, dipingendo le sue secolari architetture di tinte tenui. Ma Rebecca, nella sua stanza ben lontana dal centro, aveva iniziato il suo venerdì molto prima che glielo dicessero i raggi del sole che facevano capolino dalle persiane della finestra. Aveva tirato a lucido la sua stanza, temeva che sua sorella le tendesse un'imboscata e non aveva voglia di sentirsi dire che era la solita disordinata, ritardataria e giù di lì. 

Si coprì per bene, considerati i tre gradi esterni, afferrò la borsa coi libri e scese giù nel cortile del condominio, dove la aspettava la sua bicicletta, pronta per condurla in biblioteca.

Aveva disattivato la sveglia prima che suonasse, per fortuna soffriva d'insonnia, così Giulia, accanto a lui, non si sarebbe svegliata e magari non l'avrebbe seguito per tutto il giorno, impedendogli di progredire nella stesura del suo articolo. Si mise a sedere e si vestì prestando attenzione a non fare rumore, ma lei non si sarebbe svegliata nemmeno se avesse intonato l'inno nazionale francese a due centimetri dal suo orecchio. Si diresse nel soggiorno, dove tenui raggi del sole oltre le serrande abbassate annunciavano timidamente l'arrivo del giorno. Fece un giro attorno al tavolino di fronte al divano, raccolse due calici con ancora qualche dito di vino rosso e opaco: forse attraverso quel filtro vermiglio, la presenza di Giulia poteva essere più sopportabile. Mentre riversava il contenuto dei calici nel lavandino, sospirò, consapevole del fatto che aveva bisogno del suo amico fegato per tirare avanti.
Sentì Giulia muoversi e grugnire nella stanza, quindi decise di abbandonare la caffettiera appena messa sul fornello e correre fuori, ritrovandosi come un estraneo nel suo appartamento. Afferrò il cappotto e le chiavi, guardò l'orologio, erano le 8 e mezza di un venerdì di metà marzo. Diede uno sguardo al calendario che troneggiava accanto allo svuota tasche (ricordo di una comunione...): venerdì 17. Provò a non farci caso, in fondo iniziò a convincersi che la fortuna e la sfortuna fossero congetture mentali dell'uomo e, nel suo caso, una delle tante...
Chiamò l'ascensore, sperando che quella mattina non gli facesse scendere quelle sette rampe di scale, e almeno quel suo desiderio venne esaudito. Si sistemò guardandosi nello specchio all'interno, diede una riavviata ai capelli, forse troppo vigorosa visti i fili castani che gli restarono tra le dita. Due piani dopo, salì un bambino pronto per la scuola, con tanto di grembiulino blu e sua mamma, tutta intenta a chiudergli il più possibile il cappotto. All'improvviso, tutte le righe del legno giallo dell'ascensore acquistarono un certo fascino, finché il bambino non gli tirò la giacca. Quel metro e trenta di uomo con gli occhioni neri e il cappello di lana calato fin sopra le sopracciglia lo guardava fisso, finché non gli parlò. << Quanti anni hai? >>
La madre lo rimproverò subito, ma rispose sorridendo << Sicuramente più dei tuoi. E tu, quanti anni hai? >>
<< Nove! >> affermò orgoglioso. << Mi chiamo Claudio. Tu come ti chiami? >>
La mamma di Claudio si scusò, imbarazzata, poco prima di uscire dell'ascensore.
<< Non si preoccupi. Io mi chiamo Alessandro>>
<< Mamma, hai sentito? Come lo zio! >> esclamò con gli occhi lucidi. << Domani vuoi venire alla mia festa di compleanno? >>
Alessandro lo guardò spiazzato, mentre scendevano gli ultimi gradini fuori dal condominio. La madre si girò e lo trascinò forte, recitando altre sentite scuse. Alessandro sorrise e gli urlò una conferma.

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