Selene

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A te, che sei un po' come me, dedico questa storia e le sue parole.

Quelle dette e quelle taciute, quelle che non devi temere,

quelle pronte ad esplodere, quelle che sono fatte per essere pronunciate e sentite da tutto il mondo.

A te, che senza fare nomi spero capirai.

Odio chi mi toglie la solitudine

senza farmi compagnia

F. Nietzsche

I tasti bianchi giacevano sotto i suoi occhi ansiosi di essere sfiorati, bramando ardentemente il fugace tocco delle dita che li avrebbe accarezzati e resi vivi per la frazione di un secondo. Erano lì, distesa immacolata, foglio candido che voleva essere sporcato con i tocchi di Zayn, tanti frammenti desiderosi di essere uniti dal filo di un’unica melodia.

Lo volevano, lo desideravano fervidamente, ne avevano il disperato bisogno. Zayn stesso avvertiva il bisogno di suonare. Impellente e dolorosa necessità dentro le sue articolazioni.

Le mani ferme a mezz’aria, immobili, incapaci di proseguire oltre.

Incapaci di poterli accontentare.

Paralizzate da cosa non si sa. Non lo sapeva nemmeno Zayn cosa lo bloccasse in quella maniera, cosa gli stesse legando i polsi gelandogli le falangi. Cosa lo rendesse muto e sterile.

Le alzò, se le portò vicine al volto esaminandole una alla volta.

Le ammirò, esili, sottili e lunghe, perfette. Le unghie curate, la pelle morbida, gliel’avevano sempre detto che possedeva delle dita create apposta per suonare il pianoforte. Lui aveva sempre ritenuto il contrario, aveva sempre visto le sue mani come comuni mani, non avevano nulla di speciale rispetto quelle del postino che per anni aveva incrociato tutte le mattine, dell’insegnante di matematica che gli aveva dato il tormento durante le scuole elementari, non differenziavano nemmeno da quelle dei suoi amici che aveva sfiorato quando, nascosti in cantina, si passavano la bottiglia di scotch rubata al genitore di turno.

Comuni mani, come quelle di qualsiasi altro mortale.

Comuni mani, che da quando avevano appreso l’arte della musica non avevano utilizzato altro linguaggio per comunicare.

Comuni mani, che erano state in grado di strapparlo alla sua piccola casa di periferia per catapultarlo oltreoceano, in una delle scuole di belle arti più rinomate dell’intera America del nord.

Comuni mani, che lo avevano portato a Boston per scontrarsi con il suo talento.

Comuni mani, che di comune non avevano poi così tanto.

Comuni mani, che ora lo stavano tradendo rimanendo celate dietro il loro mutismo.

Nulla, non ce l’avrebbe fatta nemmeno quel giorno. Ormai erano settimane che non riusciva a suonare nulla di decente, nemmeno la più semplice delle armonie che conosceva era stato in grado di rendere udibile.

Tutto ciò che produceva era vuoto, scialbo, privo di corpo e vita.

Zayn chiuse gli occhi.

La frustrazione era troppa, la sentiva urtarlo dentro, premere sulla cassa toracica, sottrargli aria. Un masso posto esattamente sullo sterno che, con il suo fardello, lo inondava di un’agrodolce malinconia che difficilmente sarebbe svanita.

Inspirò lentamente dal naso, per poi rilasciare l’aria in un leggero sbuffò che gli fuoriuscì dalle labbra rosee.

Poco alla volta iniziò ad escludere tutto.

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