sulla luna crescono i ciliegi

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O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l'anno, sovra questo colle
Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed č, cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l'etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri

(Alla luna, 1820, Giacomo Leopardi)

"Sulla luna crescono i ciliegi."

Ogni volta che mio nonno pronunciava quelle parole, automaticamente portava le braccia al cielo e faceva toccare le dita formando un cerchio perfetto. Lo diceva sempre, ogni singola volta che lo vedevo. Era un vero e proprio particolare del suo essere.

Quando ero abbastanza piccolo da poter essere preso in braccio, mi stringeva la vita e mi faceva volteggiare nell'aria ripetendo quella strana frase. E subito le nostre risate risuonavano sempre più forti alle orecchie di chi ci ascoltava, mescolandosi e creando una dolce e nostalgica melodia.

Non ho mai capito perché lo dicesse, né ebbi il tempo di chiederglielo. La prima volta che pensai di farlo fu il giorno in cui morì. 

Nessuno se lo aspettava. Era anziano, certamente, ma l'accaduto fu così imprevisto e immotivato che lasciò nei cuori di tutti un incolmabile vuoto.

Era un uomo molto amato mio nonno. Conosceva tutti gli abitanti del nostro piccolo paese, grandi e piccoli, e ognuno di loro nutriva grande affetto e rispetto nei suoi confronti. Ogni volta che lo incontravano per le strade, non potevano far a meno che ricambiare quel suo perenne dolce sorriso. 
E probabilmente a sua volta, mio nonno amava tutti.

Era un poeta, ma non perché scrivesse versi. Era sempre stato un umile e incolto contadino che possedeva, oltre all'amore, solo un pezzo di terra.
Eppure, nonostante la povertà di quel che aveva, il suo cuore era colmo di ricchezza.

Era un poeta non perché scrivesse dei versi -a malapena sapeva scrivere il suo nome-,  ma perché amava la vita e ne decantava ogni bellezza. 

Durante la cerimonia del suo funerale non facevo che pensare a quanto fosse strana la morte. Un attimo sei vivo e l'attimo dopo non esisti più. Morto. Senza vita. Fermo.
Lo guardavo steso nella sua bara e mi convincevo che stesse dormendo e forse se nessuno mi avesse avesse detto niente, vedendolo così avrei pensato che lo stesse seriamente facendo.

"Perché esiste la morte?" mi chiesi quel giorno. Avevo 10 anni e forse ero fin troppo piccolo per domandarmelo.
Eppure quella notte non riuscì a dormire proprio a causa di quelle strane domande.

Perché esiste la morte? Perché ogni volta che lo incontravo, mio nonno parlava della luna?

Lo faceva sempre, quasi fosse un dovere. Come se avesse promesso a qualcuno di estremamente importante di farlo.

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