Ann aveva paura del buio.
Nella solitudine della sua camera faceva fatica ad addormentarsi, specialmente da quando la lucina che teneva attaccata alla presa sotto la sua scrivania si era rotta, quasi tre settimane prima, e suo padre si rifiutava di comprarne una nuova. Lui la riteneva "troppo cresciuta per aver ancora paure da bambini" e Ann si arrendeva alla prima difficoltà, aveva rinunciato senza insistere. Così, come ogni sera, le feci compagnia finché non si lasciò scivolare nell'oblio del sonno. In qualche modo la mia presenza la faceva sentire protetta -trovavo buffo il fatto che un fantasma la aiutasse a calmarsi- e quindi rimanevo a vegliare su di lei per diversi minuti, accertandomi che il suo riposo fosse tranquillo. Era ormai parte della nostra routine, assieme a tante altre piccole cose che avevano un valore molto più grande di quanto ci si potesse aspettare.
Quella sera rimasi in attesa più a lungo del solito perché Ann avrebbe avuto una verifica di matematica il giorno seguente e, dopo essersi addormentata con non poca difficoltà, si era rigirata più e più volte tra le coperte. Intorno alle undici e mezza mi parve che si fosse calmata e, finalmente, decisi di abbandonare la mia postazione sulla sedia della scrivania per uscire e godermi la notte.
Le sfiorai la fronte con le labbra in un gesto leggero, un bacio della buonanotte etereo come lo ero io. Poi raggiunsi a gradi falcate la finestra e senza fermarmi oltrepassai il vetro.
Non mi piaceva attraversare le cose, era un'azione che non mancava mai di ricordarmi il fatto che non fossi realmente presente e io lo detestavo. Ero in grado di levitare, non esattamente come i fantasmi dei film, ma ciò mi permetteva di non sprofondare nel pavimento -ci avevo provato una volta sola e mi ero ritrovato nel bagno de vicino di Ann mentre il vecchio si apprestava ad entrare nella doccia, fu un'esperienza terribile che mi servì di lezione.
Ero diventato bravo a rimanere sospeso appena sopra ad una superficie, in modo da poter far finta di essere seduto, sdraiato o anche semplicemente in piedi. Comportarmi come se fossi ancora un umano mi faceva sentire tranquillo.
La levitazione rendeva la caduta dal quarto piano molto lenta: planai delicatamente verso la strada senza che il vento mi stropicciasse i vestiti o scompigliasse i capelli -i miei bellissimi ricci castani rimasero morbidamente adagiati sulla fronte. Non mi dispiaceva saper volare, ad ogni modo, mi sentivo un po' come Iron Man. Fermai giusto in tempo la caduta, così che le mie stan smith bianche toccassero il suolo, e decisi di iniziare la mia passeggiata dal minimarket aperto ventiquattr'ore su ventiquattro che si trovava due isolati più avanti.
La serata era tranquilla. Essendo nel bel mezzo della settimana, a quell'ora le strade si svuotavano quasi completamente e le luci alle finestre si riducevano a solitari quadratini luminosi che andavano via via diminuendo. Gli ultimi pendolari che si affrettavano verso casa e alcune giovani coppie mano nella mano erano le uniche presenze; i loro alti toni di voce, mentre chiacchieravano spensierati o dialogavano al telefono, parevano quasi fuori posto nell'atmosfera di quella tranquilla zona della metropoli.
Dall'abbigliamento delle persone che incontravo lungo il mio percorso potevo immaginare che l'aria di inizio primavera fosse piuttosto fredda, perché tutti avevano con sé almeno una felpa o una giacca non troppo pesante. Io indossavo dei semplicissimi jeans ed una t-shirt nera dal marchio Levi's scolorito, ma non potevo percepire il freddo sulla pelle. I miei vestiti erano fin troppo semplici e la cosa non mi piaceva: avevo l'impressione che mi facessero passare inosservato, anche se in realtà io ero inosservato già di mio. Non disponevo di un cambio di guardaroba a misura di fantasma e quindi ero costretto a quel look monotono ogni dannatissimo giorno. Inoltre avevo molto tempo libero per pensare a cose non necessariamente rilevanti e alla fine ero giunto alla conclusione che quelli fossero i vestiti che indossavo nel momento in cui ero morto e che per questo sarei stato condannato a portarli per il resto dell'eternità. A constatare, poi, dalle condizioni -piuttosto deplorevoli- in cui si trovava la maglietta avevo raggiunto tre possibili conclusioni: era stata comprata in un negozio dell'usato, mi era stata data da un ipotetico fratello maggiore, o era uno dei miei indumenti preferiti. Speravo vivamente che l'opzione corretta non fosse la terza, perché avrebbe significato che in vita ero una persona piuttosto monotona e ne avrei scontato le conseguenze ora che ero morto.
Ah.
Giusto.
Probabilmente ero morto.
La mia morte era un'altra delle cose su cui avevo a lungo riflettuto. Non avevo nessun chiaro segno sul mio corpo che ne indicasse la causa -niente voglie a forma di proiettile o altre cose di questo genere che si vedono in tv- né avevo alcun ricordo di una vita o del mio vero nome. Non potevo affermarlo con certezza, ma, dal momento che la mia condizione somigliava a quella di un fantasma, alla fine mi ero convinto che fosse l'opzione più concreta. Era strano pensarci, perché io non mi sentivo morto, proprio per niente. Ero pieno di energia, di idee e di desideri; c'erano un sacco di cose che avrei voluto fare, luoghi che avrei voluto visitare, esperienze da vivere. Ma non avrei potuto fare niente di ciò che desideravo. Per quanto io mi sentissi vivo, non esistevo. Forse per questo volevo disperatamente credere che in un momento del mio passato io fossi stato un ragazzo che poteva camminare, respirare, toccare. Una teoria infondata era la mia unica difesa contro quella paura, terribile, che mi corrodeva dall'interno ripresentandosi al mio cospetto ogni giorno, ponendo quell'orrendo dubbio nella mia mente: se non fossi mai stato nulla più che aria? Se fossi sempre stato solo un pensiero? Se realmente non avessi mai vissuto?
Mi venne in mente Ann. La invidiavo. Arrivavo, alcune volte, al punto di odiarla. Lei possedeva tutto ciò a cui io non avevo diritto, eppure era sempre così ingrata. Una ragazza vuota, priva di passione; sembrava che non provasse sentimenti, le sue espressioni erano mere recite, e niente le suscitava interesse. Non aveva carattere, non odiava niente e niente le piaceva, non aveva un cibo preferito o un colore o una canzone. Tutto era irrilevante: mangiava senza dare alcun giudizio, vestiva senza mai sentirsi a suo agio, ascoltava la canzone che passava alla radio. Suonava divinamente il piano, ma solo perché i genitori la avevano iscritta a quel corso. A scuola non andava male, ma si impegnava giusto quel poco che bastava per arrivare alla sufficienza. Vestiva in maniera elegante ed era una ragazza carina, ma lasciava scegliere i suoi abiti alla madre e alle amiche e non si interessava di apparire in alcun modo. Aveva un gruppo di amici e frequentava persino un corso pomeridiano a scuola, ma il suo atteggiamento era talmente passivo che all'interno del gruppo la sua presenza si percepiva a malapena.
Io la conoscevo bene, meglio di chiunque altro. Sapevo sempre a cosa pensava. Di tanto in tanto riuscivo a strapparle un'emozione: un sorriso, un sospiro di frustrazione, una lacrima. In quei momenti mi sentivo importante, perché ero l'unico che non poteva ingannare e l'unico che potesse aiutarla. Riconoscevo la finzione sul suo viso ed ero in grado di farla vivere, sapevo trasformare quella bambola di porcellana dagli occhi vitrei in un essere umano.
Una parte di me odiava Ann ed ero sicuro che non avrebbe mai smesso, ma andava bene così. Un'altra le era grata, perché grazie a lei la mia esistenza pareva acquistare un senso. Avevo l'impressione di esistere per Ann, per aiutarla a ritrovare le sue emozioni perdute.La porta scorrevole del minimarket rimase chiusa quando la oltrepassai.
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Ikigai
Paranormalneɪᴋɪɢᴀɪ: "ʀᴀɢɪᴏɴ ᴅ'ᴇꜱꜱᴇʀᴇ" All'improvviso mi parve di essermi perso attraverso i sentieri della vita. Ero confuso, spaventato. E non ero niente. Sentii il suono di un pianoforte e tutte le mie incertezze parvero svanire. Andai in quella direzione. [L...