Finalmente sono in pace. L'ho cercata per tutta la vita e finalmente mi ha trovato.
"Troppo sensibile" dicevano "troppo debole, Un'anima persa". Non credo che nessuno mi abbia capito o forse mi hanno capito tutti.
La verità è che ho avuto tutto e in pochissimo tempo. E io non lo volevo.
Avete mai provato a fare una buca su una spiaggia sabbiosa, in riva al mare; non sul filo delle onde, ma appena discosta. Quando un'onda più grande infrange la regolarità del moto, questa riversa un poco d'acqua nella buca. Piano piano, dopo un po' di tempo la colma. Ora immaginate di voler riversare il mare in quella buca. Per quanto vi affanniate è un pensiero talmente folle da non riuscire neanche a percorrerlo. Bene io ero quella buca e mi sentivo come se qualcuno mi avesse riversato dentro il mare.
E' successo tutto così in fretta, ma ripensando alla pienezza di alcuni attimi mi sembra di avere vissuto mille anni. Non sono nato triste anzi. I primi anni della mia vita sono stati felici. Quando mamma e papà stavano ancora insieme non ricordo pensieri cupi. Sentivo già allora il bisogno di esternare al mondo la mia sensibilità, ma era una necessità figlia della gioia e non del vuoto. Poi le cose come in un vortice accelerarono. Mamma e papà divisero le loro strade e io, randagio, cercavo di incrociarle. Ma l'angoscia del tempo perduto mi prendeva da dentro svuotando ogni prospettiva felice. Io crescevo, mi formavo e con me la cupa sensazione di essere in una situazione che in qualsiasi maniera non mi avrebbe mai fatto recuperare ciò che era stato.
Da dove sono adesso, riflettendo con voi, capisco anche Proust.
Ho studiato, mai con fervore, salvo rare volte. La scuola mi angosciava, non tanto per le preoccupazioni abituali dei giovani: i compiti, i test, le interrogazioni, i voti. Il problema era che a scuola volente o nolente dovevo confrontarmi con la felicità degli altri.
Qualcuno felice o meglio normale, come pensavo io allora, c'era. Un padre, una madre fratelli e sorelle, la scuola, lo sport, le amicizie scandivano vite ordinarie sincopate dalla tranquillità e da una tenerezza sottile che io avevo perso.
Ho sempre scritto, ho sempre disegnato, ho suonato sin da quando non sapevo leggere e scrivere. Ma in nessuna espressione del mio io ho mai trovato ristoro al mio travaglio interiore. Avevo bisogno di dire a tutti come stavo e ho sempre cercato di farlo, ma la gente non mi ha mai creduto più di tanto.
Anche quando sono diventato un dio del Rock.
A ripensarci come puoi credere a uno che ti sbatte in faccia come un cazzotto il suo disagio esistenziale e poi gira in Limousine, dorme in hotel dove una notte in camera vale come sei mesi di stipendio di un operaio e ogni volta che firma un pezzo quello diventa una hit con indotto a sei zeri. Non puoi. Soprattutto se non lo conosci che attraverso i giornali o il sentito dire. In realtà la colpa era mia. C'era tutto di me nelle mie canzoni, ma quando le luci della ribalta si spegnevano e io tornavo al livello degli altri uomini per me era difficile comunicare con loro.
La musica inizialmente è stata una buona terapia. Mi ricordo le prime volte che provai a suonare con altri ragazzi. Mi piaceva l'odore acido del manico di legno della mia chitarra quando si mischiava a quello della polvere del garage dove suonavamo. Adoravo sentire vibrare tra le mie gambe la cordiera del rullante. Mi riempivo delle note del basso che doppiavano il battito del mio cuore. Non ho mai più trovato quei piaceri delle mie prime esperienze in una band.
Ma come i miei affetti anche la mia carriera di artista subì un'accelerazione. Bastò poco meno di un decennio e da signor nessuno, re del garage di qualche amico, divenni il re del Grunge il profeta della generazione X.
Ma io non volevo. Ritornavo di tanto in tanto a riguardare le torbide acque del Wishkah e tra la corrente rivedevo me qualche anno prima in cerca di stille di felicità, ripensavo anche a Boddah il mio amico immaginario, l'unico che poteva capire cosa fosse per me la felicità.
Ma attorno a me non la trovavo. Il vuoto dentro di me non faceva che aumentare sino a farmi sentirmi un grande buco nero. Provai a riempirlo con piccoli buchi nella mia pelle.
Vi ricordate quella canzone di Lou Reed Perfect Day? Grazie all'eroina ho vissuto anche io qualche volta il giorno perfetto: mi vedevo nel parco a bere sangria e allo Zoo, poi al cinema e casa e i pensieri cupi alle spalle. Ma anche rispetto alla brevità della mia via vita stiamo parlando di momenti della durata di un niente. E dopo, quando ridiventavo me stesso, il grosso buco era cresciuto ulteriormente. Il fiore di papavero è generoso dissi una volta, ma solo con chi non ha alternative.
Purtroppo non ho vissuto serenamente neppure l'amore, neppure la paternità. Tutto è arrivato, tutto è andato alla velocità della luce. Posso vedere mia moglie invecchiare, mia figlia crescere e fin quando non le riabbraccerò per loro sarò solo nostalgia.
Se essere artista vuol dire mettersi a nudo allora io lo sono stato. Tutta la mia debolezza e tutto il mio disagio l'ho messo in ogni parola, in ogni nota. Mi stupivo che tanta gente ballasse ai miei concerti. C'era molta malinconia in me e molta allegria in loro. Suonavo, cantavo e pensavo a chi avevo davanti, alla vita che facevano e li invidiavo. Tutti.
Dapprima bene o male conoscevo il mio pubblico, la mia gente. Poi gli eventi accelerarono ulteriormente e la mia musica si diffuse per mezzo mondo e io la rincorsi in lunghe tournée. Soldi, fama successo, soldi, fama successo, soldi, fama successo... Il buco cresceva e io non riuscivo più a contenerlo.
Provai a farla finita. Mi presero per i capelli e mi riportarono al mondo. Mi chiesero di riprendere la mia vita. Dissi di si, ma non volevo.
Fuggii la vita in perfetta solitudine. Lasciai la casa di cura dove tutto doveva ricominciare, dove dovevo ricucire i miei pezzi e ridurre il mio buco esistenziale.
Quando fui solo scrissi e pensai, poi un ultimo buco, piccolo, un forellino causato da un ago nella pelle e infine imbracciato il fucile BANG....
Ora credetemi sto bene, sono in pace e posso dirmi felice. Posso curiosare tra le pieghe del mondo senza invidia, senza malinconia, spinto solo dalla curiosità. Il buco l'ho colmato con la mia anima ritrovata.
Forse è per questo che mi sentivo vuoto prima di trapassare: perché noi, dei del rock, per potere essere tali la nostra anima dobbiamo perderla.
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PARADISE CITY
General FictionHo voluto scrivere una sorta di Antologia di Spoon River in prosa dove a parlare sono le Star del Rock ormai trapassate che in poche righe ripercorrono la loro parentesi terrena.