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Sbatto le palpebre lentamente. La luce che filtra dalle tende mi infastidisce e richiudo gli occhi per qualche secondo, sentendomi vuota. Non ricordo bene chi sono, dove sono. Scavo nella mia mente e ricordo: sono stata investita uscita da lavoro. Riapro gli occhi lentamente, troppo frastornata e dolorante per poter compiere questo gesto con velocità. Cerco di valutare lentamente il danno, muovendo piano gli arti e sospiro sollevata, sentendo che riesco a muovere tutto, per quanto i movimenti fossero minimi e poco faticosi. Spero davvero di non essermi rotta nulla.

«Lena!»

Mi volto ed osservo mio padre, che mi sorride con le lacrime agli occhi.

«Oddio Lena!» mi abbraccia con la sua solita foga, tirando su con il naso. Eppure lo sa che odio il contatto fisico. Però lo lascio fare, e ricambio la stretta come meglio posso.

«Come ti senti?» mi chiede preoccupato, sollevandosi.

«Dolorante ma sto benone» dico io con voce rauca. «Quanto tempo è passato dall'incidente?»

«Due mesi» risponde mio padre e io trattengo il fiato.

«Oh» abbasso il capo mogia e fisso le mie mani

«Signor Fillion, me la lasci visitare!» osservo farsi avanti il dottore e sorrido, mentre lascio che mi levi la flebo dal braccio.

E mentre mi visita, sento come se ci fosse qualcosa di davvero importante che devo ricordare.

Rimango in ospedale per ancora qualche giorno ed osservo i miei amici che vengono a trovarmi. So che Line ed Hachi sono state con me molto spesso, nonostante sappia bene che debbano prendere relativi mezzi pubblici per farlo. E io mi sento impaziente e non capisco come mai. Non sono mai stata così. Non ho granché da perdere a stare qui, anzi mi sento coccolata. Ho un lavoro molto semplice che non mi importa molto di saltare. Eppure sono impaziente, voglio scattare in piedi. É come se, in questi due mesi in cui sono rimasta in coma, io avessi cambiato qualcosa nel mio modo di pensare. Che sia possibile? Ricordo di aver fatto un sogno lungo, ma non lo ricordo per nulla.

Quando mi dimettono, indosso un vestito che papà mi ha portato da casa. É un vestito rosso, semplice ma mi piace molto addosso.

«Perché vuoi un vestito? Non ne sei mai andata matta» mi chiede mio padre perplesso, mentre mi cambio.

«Avevo voglia di sentirmi bella» rispondo, scrollando le spalle. Esco dall'ospedale con la convinzione che sia successo davvero qualcosa durante il mio coma, e volteggio sentendomi quasi senza paura, con addosso il mio miglior vestito. In macchina, estraggo un quadernetto e comincio ad organizzare i miei pensieri confusi e senza filo logico.

«Cosa scrivi?» chiede mio padre curioso, non appena si ferma ad un semaforo rosso. Alzo lo sguardo verso di lui ed accenno un sorriso.

«Delle cose da cui vorrei partire per riprendere in mano la mia vita» mi trema quasi la voce a dirlo, sentendomi emozionata e anche imbarazzata. Non sono mai stata brava a parlare del futuro, ho sempre avuto paura che le persone affianco a me potessero criticare le mie decisioni. Ma è la mia vita ed è giusto che sia io a scegliere no?

«E cosa hai scritto?» papà sembra interessato, forse è speranzoso che possa finalmente rimettermi in piedi da sola.

«Voglio riprendere a suonare» dico vaga, senza spiegargli cosa ho davvero in mente, perché per quello ho bisogno ancora di tempo. I suoi occhi grigi brillano di emozione.

«Sarei onorato di poterti aiutare» si offre lui e io annuisco contenta. Poi mi schiarisco la voce.

«Vorrei anche ricominciare a cantare se per te va bene»

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