4. La Zingara

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Quasi cent'anni prima

È autunno e il sole placido riscalda le ampie foglie delle viti, ravvivandone i riflessi scarlatti. Il sole splende a lungo, su quel lato della valle, ed è per questo che qualcuno, parecchio tempo fa, ha deciso di piantarci un piccolo vigneto. L'uva cresce bene, lì, anche se il terreno è impervio e il pendio così ripido che, se appena ti scappa un piede, scivoli e rotoli verso valle per parecchi metri.

Agnese slitta da un terrazzamento all'altro, allungandosi tra la polvere e l'erba e strisciando per raggiungere i grappoli più bassi, quelli che crescono quasi a contatto con il terreno e che, qualche volta, prendono anche un po' il sapore ferruginoso della terra. È un compito che spetta a lei, quello, perché è la più piccola e minuta tra tutte le persone che si sono date appuntamento per vendemmiare: gli adulti farebbero troppa fatica, se dovessero cogliere quei grappoli così nascosti.

Stringendo tra le manine una cascata di grossi acini succosi, di un viola così scuro da sembrare quasi nero, la bambina rotola su un fianco e poi si mette seduta, allungando davanti a sé le gambe e agitando un pochino i piedi. È un lavoro scomodo, quello che le hanno assegnato. Le fa venire uno strano formicolio ai polpacci e alle piante dei piedi, quasi che un'infinità di formiche avessero preso a correre avanti e indietro sulle sue gambe.

Anche Giovanni e Alberto corrono avanti e indietro. Agnese guarda con disapprovazione i suoi due fratelli maggiori, intenti a rincorrersi tra i filari: si sono stancati di lavorare e ora giocano alla guerra, lanciandosi l'un l'atro manciate di acini marci. Quando uno dei ragazzini sfiora una delle grosse gerle colme d'uva, rischiando di rovesciarla, la bambina trattiene il fiato. «Issä mochìllä» abbaia la mamma, adesso finitela. Alberto è più grande e schizza via, ma Giovanni non è abbastanza rapido e la mamma lo affetta per la collottola, sollevando una mano e minacciando di tirargli uno scappellotto. Agnese abbassa il viso verso le ginocchia e ridacchia. Se fossero stati soli, gliel'avrebbe tirato per davvero, lo scappellotto, ma qui ci sono tutte le amiche della mamma e lei non ha voglia di arrabbiarsi. Giovanni è stato fortunato.

La bambina è giunta alla fine di un filare e si prepara a passare a quello successivo, qualche metro più in basso, quando le donne che lavorano con lei alla vigna salutano qualcuno. Alzandosi sulla punta degli scarponcini consunti, che sono passati da Alberto a Giovanni e infine a lei, Agnese scorge una testolina adornata da due brillanti trecce scure. Subito sorride. È Margherita, quella.

Schermandosi gli occhi con una mano sporca di terra, la bambina osserva l'amica guardarsi in giro e poi arrampicarsi rapidamente su per il pendio, affrettandosi a raggiungerla. Margherita non deve lavorare alla vigna e il suo vestitino azzurro, il suo maglioncino color panna e le calze immacolate sembrano quasi risplendere, se confrontate agli abiti macchiati e un po' rovinati indossati da Agnese.

Con le guance pallide leggermente arrossate dalla salita, Margherita si lascia cadere a terra accanto all'amica, ripiegando compostamente le gambe cosicché la sottana non salga troppo. "La Zingara vuole vederci" le dice, con un ansito nella voce che è solo in parte dovuto allo sforzo fisico.

Agnese aggrotta la fronte. «Adesso?» chiede, anche se, in realtà, conosce già la risposta.

La bambina bruna annuisce. «Andiamo?»

Agnese esita solo un istante, prima di alzarsi in piedi. Il lavoro alla vigna è tutt'altro che finito, ma sa benissimo che, se è Margherita a chiamarla, la mamma non avrà nulla di ridire: la sua amica ha un cognome importante, uno di quei cognomi che parlano di ricchezza antica e di nobiltà mai del tutto dimenticata e la mamma è contenta di sapere che loro due sono tanto legate.

Cionondimeno, le apparenze sono importanti. «Posso andare a giocare, màm?» chiede, tirando fuori la vocina più dolce che le riesce. La mamma posa a terra la gerla che si era appena caricata sulle spalle e, nel farlo, si sgranchisce un poco la schiena affaticata dal peso eccessivo. Si passa una mano sulla fronte, dove i sottili capelli castani rimangono appiccicati a causa del sudore, poi guarda le persone che ancora si affaccendano attorno alle viti. «Va bene, vai pure» concede. «Torna in tempo per iniziare a preparare la cena, che io faccio tardi.»

Contra DiabolumDove le storie prendono vita. Scoprilo ora