𝟓.

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Andai a prenderla con il motorino, anche se non ce n'era alcun bisogno.
Volevo solo impressionarla.
Fare la cazzona, forse. Come quando avevo fatto un tiro, la prima volta che l'avevo vista, in spiaggia, con la chitarra appoggiata sulle gambe.
Non appena vidi il suo sorriso, tuttavia, seppi che non aveva funzionato quasi per niente, e che aveva capito tutto. Come quando avevo fatto un tiro, la prima volta che l'avevo vista, in spiaggia, con la chitarra appoggiata sulle gambe.

Era bellissima.
Pantaloncini neri corti e una camicia bordeaux morbida con uno scollo verticale sul davanti.
Quelle pupille che illuminavano ogni cosa tutto intorno e la sua bocca color more.
Sembrava che la sera la avvolgesse. 

- Non sono mai stata su un motorino - disse, mentre finiva di infilarsi un paio di orecchini.
Era cosciente del fatto che la stessi guardando.
Si mise quasi in posa, o almeno, mi sembrò che lo facesse, mentre arrossiva solo perché sentiva i miei occhi ingarbugliarsi in lei: i gomiti a mezz'aria e la testa leggermente inclinata, i capelli ricci che finivano per metà davanti alla sua bocca - potevo solo ammirarla. L'avrei fermata lì, perfetta, per ritrarla di nuovo, le mani impegnate con gli orecchini dorati, le palpebre abbassate e le lunghe ciglia scure che sbattevano lievemente.
L'avrei dipinta in mille e mille modi. 
Senza mai riuscire a farlo.
Distruggendo ogni volta la tela. 

Le porsi un casco e la aiutai ad allacciarlo sotto il mento. Aveva una fossetta, lì.
Resistetti a stento all'impulso di carezzarla con il pollice e cercai in ogni modo di non guardarla troppo.
Si sedette dietro di me con un movimento un po' impacciato, e solo quando si fu aggrappata alla mia schiena ed ebbe appoggiato la testa alla mia spalla partii.
L'aria della sera era viziata, calda.
Davanti a noi le luci rosse e gialle dei fari delle macchine e un cielo indaco. 
Le dita di Marina mi carezzavano le costole, sentivo il battito del suo cuore attraverso i suoi seni e il suo addome, che aderivano alla mia schiena.
Feci apposta un paio di curve strette, per spaventarla e salvarla, per fare mostro e cavaliere. Per sembrare pericolosa, in quel modo stupido per cui lei rideva, perché le piaceva.
Si aggrappò stretta a me.
Risi anche io.
Giocammo a dirci parole che non sentivamo - andavo troppo veloce, dovevamo ripetercele ancora e ancora. A volte lei gridava di rallentare e io aumentavo la velocità, mi chiamava stupida e mi dava colpetti sul braccio - alla fine le obbedii, e guardammo insieme la città che correva lenta sotto ai nostri occhi.
Mi stringeva.
E mentre mi stringeva, capivo che amava tutto quello che trovava sotto i frammenti degli specchi dietro a cui mi nascondevo.
Faceva filtrare la luce in un posto dove per anni c'erano state solo tenebre - era lei, era lei la luce che filtrava.
Mi spaventava e mi rendeva felice.
Mi faceva sentire così indegna.
Mi faceva venire voglia di ringraziare la terra.

Non lo sapeva, ma erano anni che io desideravo solo morire - o forse lo sapeva?
E tutto d'un tratto era arrivata e aveva cancellato tutto questo. 
Con le sue arance, il suo profumo, le brioche, i libri, i gamberetti fritti, il pedalò, il risciò.
La sua voglia di vivere.
La sua voglia di stare con me.

Arrivammo al ristorante in venti minuti.
La feci scendere per prima. Quando tolse il casco i suoi capelli erano scompigliati, e unì sulla nuca due ciocche laterali con una molletta.

- È terribile o a posto? - mi chiese, guardando verso l'alto come se potesse vedere.

- È a posto - le dissi, senza riuscire ad evitare di guardarla per secondi e secondi, con il mio casco ancora in mano.

- Davvero? - domandò, dubbiosa, sistemandosi qualche punto con le dita, distratta.

- Davvero.

In un impeto di coraggio, le presi la mano e la attirai verso di me.
Si lasciò fare, e me la ritrovai a fianco, vicinissima, mentre camminavamo verso un tavolo da due. Il suo profumo era buono, chissà quale aveva scelto da tutte le boccette che avevo visto nel suo bagno.

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