1 - Il Buon Giorno Si Vede Dal Catino

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In tutti i film Disney che mi avevano propinato da bambina le principesse si svegliavano con il canto degli uccelli. E no, non quel tipo di uccelli.

Apparentemente, nessun volatile di alcun genere aveva intenzione di riservarmi lo stesso trattamento. Infatti a svegliarmi fu l'allarme dell'auto del vicino.

Quel coglione che lascia sempre la Tesla parcheggiata davanti a casa. Se hai tanta paura che te la inculino non la lasciare parcheggiata fuori casa! Il rumore dell'allarme è più straziante delle urla di mia madre quando la filippina le depila l'inguine.

Mi alzo scocciata. Guardo sbuffando la sveglia: che ora indecente, le otto del mattino.

Aprendo l'armadio mi ritrovo davanti ad un'ardua scelta che condizionerà irremediabilmente il resto della mia lunga ed estenuante giornata, nonché il mio umore.
Dovrei abbassarmi a indossare un completo Armani che ho già sfoggiato un mese fa, od optare per un più umile vestitino Chanel, ma nuovo di zecca?

Scelte così ostiche a quest'ora del mattino e a stomaco vuoto mi esasperano, perciò chiudo le ante dell' armadio con un tonfo e scendo al piano di sotto a fare colazione.

Rabbrividisco quando i miei piedi toccano il freddo pavimento di marmo di Carrara.

Mia madre ha sempre avuto un debole per l'arredamento di classe. E fu proprio questa sua passione che la fece cadere tra le braccia di mio padre. Il mio vero padre, intendo, e non tutti gli altri surrogati che sono andati e venuti da questa casa per tutta la mia vita. Patetici surrogati, come per esempio ballerini, cubisti, spogliarellisti e modellucci da quattro soldi.

Per quanto io rispetti certe professioni e ne riconosca l'importanza nella vita di una triste, ricca, vecchia e annoiata signora, quelle mezze figure non hanno mai avuto niente a che fare con il mio elegante genitore, un arredatore e designer di interni di lusso e acclamato in tutto il Paese.

Un vero peccato che se ne sia scappato in uno Stato molto lontano dal nostro (e con un clima migliore) con un'attrice, collega di mia madre.

Lo scalpiccio dei miei passi sembra quasi rimbombare nel silenzio di casa mia. È così vuota e tranquilla quando quella grassona di mia madre non si è ancora alzata dal letto.
Quella megera mi sta simpatica solo mentre dorme e tiene quella boccaccia chiusa. Mi dico sempre che se mai un giorno dovesse iniziare a russare, ergo a fracassarmi le palle pure mentre dorme, la soffocherò con un cuscino.

L'unica cosa per cui la apprezzo è il fatto che sappia il fatto suo in fatto di vendette.
A distanza di otto anni dall'abbandono di mio padre, soffiò via alla sua nuova fiamma il ruolo di protagonista a cui puntava nel remake di un film dove lei era stata scartata.
Scacco matto Bridget... o Bettany... o come diavolo si chiamava.

"Barbara. Si chiamava Barbara. Cazzo, Hope, dopo tutti questi anni..."

Mi blocco e solo ora capisco perché i miei passi mi sembrassero così pesanti: qualcun altro stava camminando dietro di me.
Alzo gli occhi al cielo:

"Brutta puttanella maniaca indemoniata! Sei ancora qua ?! Non avevi attraversato il portale per l'aldilà, raggiunto il nirvana, giocato a charade con Cristo, qualche settimana fa? O stai aspettando che ti mandi io all'inferno a calci in culo?"

I bulbi oculari bianchi e raccapriccianti di Cindy ruotano come palline da biliardo dentro le sue orbite scavate, nel vano tentativo di mettermi a fuoco, ma solamente una riesce nell'intento.
Una pupilla vitrea mi scruta truce, mentre con una mano pallida e incrostata di sangue color ruggine sposta una ciocca dei suoi capelli biondi, ancora inspiegabilmente fradici, dal viso.

"Non dovresti portare un po' più di rispetto alla tua sorellina morta?"

"Vaffanculo, Morta. Stai bagnando il pavimento".

Indico la pozza di acqua e sangue che sta lasciando ai suoi piedi. Le punte dei capelli gocciolano un liquido maleodorante che sa di putridume, come di qualcosa stagnante e marcia.

"Mi vedi solo tu, cretina!"

Innervosita le volto le spalle, sperando che se ne torni in quel buco infernale o in quella parte rovinata dalla mancanza di una figura genitoriale stabile del mio cervello da cui è venuta. Solo quando l'odore di putrefazione se ne va mi decido a guardarmi indietro: di lei non è rimasta neppure la pozza d'acqua.

Una volta in cucina, la cuoca thailandese mi dà il buon giorno. Fingo di non aver sentito e mi siedo a tavola.

"Dammi da mangiare, schiava".

La thailandese sbatte le palpebre impassibile:

"Non mi ricordavo di essermi venduta a qualcuno che non fosse il mio signore Satana".

E mentre lo dice la caffettiera comincia a gorgogliare in modo anomalo. La stramba mi appoggia i pancake sul piatto e torna a occuparsi del caffè.
Non è la prima volta che se ne esce così e non ho mai capito se stia scherzando o meno, in ogni caso: cazzomene.

Una volta terminata la mia colazione ed essermi vestita (alla fine ho scelto l'abito di Chanel) e truccata a dovere, esco di casa.
In cortile mi aspetta pazientemente come ogni giorno il mio cagnolino preferito: George, l' autista.
Mi scorrazza in giro ed è pure muto, perciò adoro passare del tempo con lui, mentre lui non può spifferare in giro tutti i segretucci che gli confesso.

Se fosse ricco, di bell'aspetto e senza handicap, potrei quasi identificare in lui il padre che non ho mai avuto. Ma dato che lui non possiede questi requisiti fondamentali e io un cuore, non lo faccio.

Senza dirgli una parola, salgo in macchina. Lui accende il motore e si dirige verso la mia scuola.




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