Capitolo VII

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Erano passate sei settimane da quando mi ero trasferita a casa di Alannah. Dopo i primi due giorni mio padre aveva smesso di provare a convincermi a tornare a casa,e mi stava bene così. Io e Alannah saltavamo spesso la scuola per andare in giro per le sale giochi o semplicemente al parco, perchè mi piacciono le altalene e lei mi spingeva fino a farmi toccare il cielo con un dito. Stavamo sole praticamente per il 99% delle nostre giornate, era come se vivessimo in un mondo parallelo dove c'eravamo solo noi due, ed era bellissimo. Il confine tra inseparabili amiche del cuore e sorelle si assottigliava ogni giorno di più e, dal mio punto di vista, si assottigliava anche quello tra inseparabili amiche del cuore e...qualcosa di più. Avevo sempre più voglia della mia migliore amica e sempre più paura di perderla, ma non perchè sarei rimasta sola -dato che ero stata sola per molti anni- ma più che altro perchè sarei rimasta senza di lei, che era la mia unica ragione di vita, e non lo dico tanto per dire. E, a proposito delle nostre vite, c'è da dire che i momenti più belli erano a letto. Ma non pensate a scopate megagalattiche degne di censura, perchè non parlo di questo. Parlo delle parole dolci sussurrate alle quattro del mattino, ai baci in fronte che mi facevano addormentare serena, e ai grattini e alle sue braccia calde quando mi svegliavo per un incubo. Parlo dei "buongiorno principessa" che non mancavano mai, parlo della cioccolata calda che ci lasciava dei baffi che facevano morir dal ridere, e parlo di quelle coccole che ti portano sulle nuvole e ti sembra di sognare. Ma anche i sogni finiscono, prima o poi ti devi svegliare.

Ricordo benissimo che era mercoledì, e io ed Alannah stavamo fumando affacciate alla finestra. Sentiamo una macchina che si ferma accanto casa, e ci sporgiamo per controllare: era una macchina sportiva, di quelle costose rosso fiammante, ed evidentemente Alannah la conosceva già, perchè esclamò un soffocato "oh merda" prima di precipitarsi alla porta.

Spuntò all'ingresso un ragazzo alto poco più di lei e moro, con i capelli rasati sui lati e lo sguardo cattivo. Aveva un giubotto di pelle aperto sulla maglia bianca e dei jeans strappati. Quando vide Alannah la abbracciò come se non la vedesse da mesi, e in effetti non lo avevo mai visto da quando ci eravamo conosciute, ma lei ricambiò l'abbraccio con altrettanto affetto. Decisi di avvicinarmi, interrompendo tutte quelle effusioni che mi stavano provocando non poco fastidio e fin troppa gelosia.

"Ehm, buongiorno. Piacere, Vicky."

"Ehi, ciao. Sono Dylan."

Seguirono uno sguardo imbarazzato e uno quasi spaventato di Alannah, che intervenne per rompere il ghiaccio, credo.

"Vì, lui è mio cugino. Vive in Florida e ogni tanto mi fa delle sorprese e viene a trovarmi senza preavviso."

Lo disse con un sorriso sarcastico e lo sguardo infastidito, tanto che Dylan iniziò a guardarsi intorno con la mano messa dietro la nuca. Io spiegai semplicemente che mi trovavo là per pura fortuna e che adesso vivevo da Alannah. Ora anche il ragazzo sembrava infastidito. Decidemmo di uscire per mangiare qualcosa al Mc, la tensione stava diventando insopportabile, e in macchina si sentiva ancora di più. Nessuno osava fiatare, e io da dietro riuscivo a vedere Alannah e Dylan che si lanciavano sguardi che stranamente non riuscivo a interpretrare. Dico "stranamente" perchè, dopo aver vissuto per un mese e mezzo a così stretto contatto con una persona, ero convinta di riuscire a capire ogni suo minimo gesto, ma credo che qualcosa mi sfuggisse su cosa accadeva tra quei due.

Appena entrati al Mc presi un tavolo, mentre Alannah si trascinò fuori Dylan con la scusa di dovergli parlare di importanti aggiornamenti riguardanti la loro famiglia. Iniziai a giocare con i miei braccialetti, e non feci altro per un quarto d'ora abbondante, poi la noia mi impose di interrompere i due cugini ritrovati per avere un po' di compagnia. Ma mi fermai davanti la porta, pietrificata dall'immagine che si presentò davanti ai miei occhi.

Dylan teneva Alannah per i fianchi, la teneva stretta vicino a sè, le si avvicinava piano facendo naso-naso, che era un gioco nostro, e poi...poi la baciava, più con passione e desiderio che con tenerezza e sentimento. Non erano come i baci che le rubavo la notte, questi erano più spinti e in qualche modo violenti, e il fatto che stessero appartati in un angolo coperto dagli alberi non era un caso. Sollevò Alannah da terra, la prese in braccio, e accarezzandole il sedere iniziò a baciarle il collo che lei portava indietro tenendo gli occhi chiusi. La mise giù e infilò le sue mani appena sotto la maglietta di lei: mi cadde il cellulare che tenevo in mano. Nemmeno lo ripresi.

Corsi via, non sapevo dove correre ma volevo andare via, lontana da Alannah e dalle sue bugie, lontana da quell'immagine che mi aveva portato via i miei sogni più sinceri e più nascosti. Potevo andare solo a casa, e in effetti dovevo andarci per prendere qualcosa che non tiravo fuori da tanto tempo.

Preparai un bagno freddo, gelido, che ci sarei voluta morire congelata. Mi immersi con un oggetto metallico in mano, e iniziai a "suonare" il mio polso come se fosse stato un violino, e lametta era l'archetto, e lo muovevo avanti e indietro e il suono che ne usciva somigliava alla morte. Non era una bella musica da mostrare, ma quello che trasferivo su quella lametta era tutto ciò che non riuscivo ad esprimere con le parole. Questa canzone non aveva voce, solo il suono del metallo sulla pelle, che cessò all'improvviso quando sprofondai in una dimensione bianca e ovattata, e per un momento credetti davvero che sarei morta in quel sangue gelido in cui ero immersa.

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