Capitolo II

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Per la sorpresa mi alzai di botto dimenticando di essere sotto un tavolo, e lanciai un urletto a causa della botta in testa. Vidi le converse ritrarsi e una vocina acuta che si chiedeva cosa fosse stato, e, subito dopo, vidi il proprietario di quell'abbigliamento familiare che si abbassava per controllare la situazione. Ad essere precisi, era una proprietaria, coi capelli lunghi e scuri raccolti in una coda tirata e un ciuffo che le ricadeva sugli occhi grigi; indossava una felpa rossa e bianca e sotto una semplice canotta nera messa nei jeans tenuti su da una cintura; aveva uno di quei fisici che invidi, era magra che poteva pesare non più di 50 chili e aveva una quarta penso. Le sorrisi.

"E' tutto a posto, non mi sono fatta nulla."

E con queste parole uscii da sotto il tavolo e continuai a mangiare come se non fosse successo niente.

Il resto delle ore in quella specie di prigione le passai con le cuffie che sparavano i Bring Me The Horizon nella mia testa, portandomi in un mondo parallelo dove stavo benissimo, tra urla e frasi che si adattavano perfettamente alla mia vita leggermente di merda, che mi facevano rendere conto che era tutto più merda di quel che pensavo fino a dieci secondi prima. Però la musica era, ed è, la mia migliore amica. Pensateci, c'è in ogni momento in cui abbiate bisogno, ha sempre le parole giuste da dire e i consigli migliori da dare, certe volte non hai nient'altro, e si prende tutto il senso della tua vita. E no, non voglio divagare in conversazioni filosofiche o qualcosa del genere, sono semplicemente una ragazza abbastanza sola da avere tempo libero per riflettere su questi argomenti di livello lievemente superiore rispetto ai temi che trattano i miei coetanei. Forse ho la dote particolare di riuscire ad affrontare tematiche più complesse proprio grazie alla musica e a ciò che mi ha insegnato nei miei sedici anni e due mesi di vita. In genere questi pensieri maturi e che non sembrano affatto da me mi passano per la testa mentre tengo una sigaretta accesa in mano e fisso il vuoto seduta sul gradino più basso del mio portone d'ingresso, ma quella volta ero sull'autobus per casa, sempre sola a fissare il vuoto, ovviamente.

Davanti a me gli alberi scorrevano lentamente e gente di tutte le età e di tutti i tipi fissava l'interno del pullman, o almeno così mi sembrava; con la coda dell'occhio vedevo due ragazzini di primo anno che pomiciavano in mezzo al corridoio, giusto per farsi notare, mentre seduta in fondo, all'angolo, intravidi la ragazza col corpo perfetto che chissà come si chiamava? Per qualche strana ragione quando la vidi mi dimenticai di tutto ciò a cui stavo pensando e mi girai per guardarla meglio. Rideva con quelli che, intuii, dovevano essere i suoi due migliori amici, dato che erano gli stessi seduti accanto a lei durante il pranzo. Aveva una risata rumorosa, le si strizzavano gli occhi e portava la mano alla bocca per coprire il suo sorriso, che, a parer mio, lasciava senza fiato.

In un momento di silenzio si guardò attorno, e notò che la stavo osservando. Mi fece un sorriso che forse doveva essere sexy,o forse solo di gentilezza, fatto sta che le uscii fuori soltanto una buffa smorfia: le labbra serrate erano piegate in su da un solo lato. Vedendo quell'espressione mi uscii una piccola risatina, e lei rise a sua volta, sempre coprendosi i denti. Evidentemente passai venti minuti a guardarla, dato che soltanto per colpa di una brusca frenata mi resi conto di essere arrivata alla fermata più vicina a casa mia. In realtà non ci volevo tornare a casa, non ci sono mai voluta tornare. E che motivo avevo di essere felice di tornare in quel posto? Non mi aspettava l'odore della pasta al ragù di mamma, solo la puzza insopportabile di vino mischiata al nauseante profumo alla fragola di Kelly e al fetore della cacca nel pannolino di Brian. Tanto per essere chiara, Kelly non era mia sorella e nemmeno mia madre, è la compagna di papà più o meno da quando è nato Brian, ma la mamma non ha mai saputo della sua esistenza, è morta di cancro pensando di aver portato avanti una famiglia felice. E invece papà non stava a fare gli straordinari, era in giro per i pub con questa puttanella che non poteva essere molto più grande di me, e ora Brian mi chiamava mamma perché non sapeva cosa fosse una vera madre, era troppo piccolo per ricordarsi di averne avuta una.

Quel giorno, però, forse avevo trovato un buon motivo per voler raggiungere casa. Mi sentivo seguita, e poi mi sentii aprire lo zaino, ma quando mi girai per tirare uno schiaffo al possibile ladro non vidi nessuno. Però qualcuno nei paraggi c'era, e si stava dirigendo a due case dalla mia. Penso che l'avrei osservata per ventiquattr'ore se avessi continuato come nell'autobus.

Per la prima volta entrai in casa col sorriso, presi il mio fratellino che piangeva in braccio e lo portai in camera sua mentre levavo di mezzo il disastro che aveva lasciato papà in salotto. La puttanella ovviamente non c'era, probabilmente era impegnata a fare...la puttanella, appunto.

Mentre mi stavo cambiando notai la tasca aperta del mio zaino, e mi ricordai della sensazione che avevo sentito appena scesa dall'autobus, quindi decisi di controllare cosa mi potessero aver rubato. In realtà non mancava proprio nulla, anzi, c'era qualcosa in più. Era un bigliettino, un pezzo di foglio a quadretti dove c'era scritto "Sono Alannah" e il suo numero di telefono. Pensai alla ragazza con le converse rosse, e senza motivo il mio cuore iniziò ad accelerare pensando che poteva aver lasciato lei quel bigliettino. Salvai subito il numero, e le scrissi un attimo dopo.

"Spero che tu abbia delle converse rosse e dei jeans troppo usati,e la risata rumorosa che provi a coprire con la mano. Sono Vicky."

Aspettai esattamente tre ore e dodici minuti prima di ricevere una risposta, e non è che avevo passato tutto questo tempo con il telefono in mano aspettando un bip che segnalasse l'arrivo di un messaggio. O forse sì.

"Spero che tu abbia un bernoccolo in testa,  credo dal lato dei capelli rosa."

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