Non avevo neanche un paio di jeans. È assurdo, lo so, perché quale sedicenne non ne possiede almeno un paio, magari con uno strappo sul ginocchio sinistro o con un cuore scarabocchiato con un pennarello sulla coscia?
Non che non mi piacessero. Non dipendeva neanche dal fatto che mia madre fosse una fashion designer, soprattutto perché lei usava i jeans in tutte le sue collezioni. Il punto era che credevo profondamente sull'importanza di vestirsi bene per fare buona impressione, e quel giorno avrei avuto un disperato bisogno di fare una buona impressione.
"Jackie?" sentii gridare Katherine da qualche parte nell'appartamento. "Il taxi è arrivato".
"Un momento!". Raccolsi un pezzo di carta dalla scrivania.
"Computer, caricabatteria, mouse", mormorai, leggendo il resto della lista. Aprii lo zaino per controllare che le mie cose fossero al loro posto, al sicuro. "Preso, preso, preso", sussurrai mentre li sfioravo tutti e tre con le dita. Con una penna rosso vivo tracciai una croce sulle voci corrispondenti nella lista.
Qualcuno busso alla mia porta. "Sei pronta, tesoro?", chiese Kathrine infilando dentro la testa. Era una donna alta vicina ai cinquanta, coi capelli biondi che cominciavano a ingrigire tagliati in un caschetto rassicurante.
"Penso di sì", risposi, ma il tremito nella voce mi tradì. Mi fissai i piedi perché non potevo reggere il suo sguardo, quello sguardo comprensivo che avevo visto dipinto su tutte le facce dal giorno del funerale.
"Ti lascio ancora un attimo", la sentii dire.
Quando la porta si richiuse, mi lisciai la la gonna e mi guardai allo specchio. I miei lunghi riccioli biondi erano stati stirati e raccolti indietro con un nastro blu, come sempre, senza una ciocca fuori posto. Il collo della camicetta era in disordine, e lo sistemai con le dita finché il mio riflesso non fu impeccabile. Strinsi le labbra, seccata, notai gli aloni lividi sotto gli occhi, ma non c'era nulla che potessi fare per compensare la mancanza di sonno che li aveva provocati.
Sospirando, abbracciai con lo sguardo là mia camera per l'ultima volta. Anche se avevo spuntato tutto dalla mia lista, non sapevo quando sarei tornata e non volevo dimenticare nulla di importante. Lo spazio sembrava stranamente vuoto, dato che quasi tutte le mie cose erano su un camion diretto in Colorado. Ci avevo messo una settimana a impacchettare tutte le cose, ma Katherine mi aveva aiutata nell'impresa.
Gli scatoloni erano quasi tutti pieni di vestiti, ma c'era anche la mia collezione delle opere di Shakespeare e le tazze da tè che io e mia sorella Lucy collezionavamo, una per ciascun Paese in cui eravamo state. Mentre mi guardavo intorno, mi resi conto che stavo sprecando il mio tempo. Con le mie capacità organizzative era impossibile che avessi dimenticato qualcosa. Il vero problema era che non volevo lasciare New York. Neanche un po'. Ma non potevo farci niente, quindi presi con riluttanza il mio bagaglio a mano. Katherine mi aspettava all'ingresso, con un'altra piccola valigia ai suoi piedi.
"Hai tutto?", mi chiese, e io annuii. "Bene, allora andiamo".
Attraversò il salotto diretta alla porta, e io la seguii lentamente, accarezzando l'arredamento in un ultimo tentativo di memorizzare ogni dettaglio di casa mia. Era una sofferenza, soprattutto perché avevo vissuto lì da quando ero nata. I lenzuoli bianchi stesi sui divani, perché la polvere non macchiasse le fodere erano come solide pareti che tenevano a bada i miei ricordi.
Lasciammo l'appartamento in silenzio, e Katherine si fermò a chiudere la porta. «Vorresti conservare tu la chiave?», mi chiese. Io avevo già il mio mazzo nello zaino, ma allungati la mano e presi il pezzetto di metallo dalla sua. Aprii il medaglione di mia madre e lasciai scivolare la chiave lungo la catena sottile perché potesse appoggiarsi sul mio petto, proprio vicino al cuore.***
In aereo restammo sedute in silenzio. Cercavo con tutte le mie forze di dimenticare che mi stavo allontanando sempre di più da casa, e mi rifiutai di piangere. Per il primo mese dopo l'incidente non mi ero alzata dal letto. Poi un giorno, quasi per miracolo, ero strisciata fuori da sotto il piumone e mi ero vestita. Da allora avevo deciso che sarei stata forte e composta. Avevo deciso che non sarei mai più stata la creatura debole e svuotata che mi ero ridotta a essere, e di sicuro non avrei cambiato idea in quel momento. Invece cercai di concentrarmi su Kathrine, che stringeva e lasciava il bracciolo con le nocche che sbiancavano ogni volta.
Non conoscevo molto la donna seduta accanto a me.
Innanzi tutto sapevo che era un'amica d'infanzia di mia madre. Erano cresciute a New York e avevano frequentato entrambe il collegio Hawkins, la stesso scuola dove eravamo state iscritte io e mia sorella. All'epoca si chiamava Katherine Green, il che mi faceva venire in mente un altra cosa che sapevo di lei. Al college aveva conosciuto George Walter. Si erano sposati e trasferiti in Colorado per aprire un ranch, il sogno di una vita di George. Infine, ecco la terza e più importante cosa che sapevo di Katherine: era la mia nuova tutrice legale. A quanto pareva ci eravamo conosciute quando io ero molto piccola, ma era passato così tanto tempo che non me la ricordavo affatto. Katherine Walter per me era una perfetta sconosciuta.
"Hai paura di volare?", le chiesi mentre espirava a fondo. A dire la verità, sembrava sul punto di vomitare.
"No, ma a essere sincera, sono un po' nervosa all'idea di... be', di portarti a casa", disse. Sentii le mie spalle contrarsi. Aveva paura che facessi qualche pazzia? Potevo rassicurarla che non sarebbe andata così, non se volevo essere ammessa a Princeton. Lo zio Richard doveva averle detto qualcosa, forse che non stavo bene, anche se non era affatto così. Katherine si accorse che la fissavo è si affrettò ad aggiungere: "Oh, no, non è per te, tesoro. So che sei una brava ragazza".
"Allora perché?".
Katherine sorrise comprensiva. "Jackie, cara, ti ho già detto che in casa mia ci sono dodici ragazzi?"
No, pensai con la bocca spalancata, questo fatto non era stato menzionato. Quando aveva deciso che sarei andata in Colorado, lo zio Richard aveva accennato al fatto che Katherine aveva figli, ma dodici? Lo zio aveva ritenuto conveniente omettere questo dettaglio. Dodici ragazzi. La casa di Katherine doveva essere costantemente nel caos. Come faceva qualcuno a volere dodici ragazzi in casa? Avvertii le ali del panico frullarmi nel petto.
Non drammatizzare, mi dissi. Inspira profondamente dal naso ed espirai dalla bocca un paio di volte, poi estrassi penna e taccuino. Dovevo sapere il più possibile della famiglia con cui avrei vissuto per potermi preparare. Mi raddrizza sul sedile e chiesi a Katherine di parlarmi dei ragazzi, cosa che fece con entusiasmo.
"Il maggiore è Will", iniziò, e io cominciai a scrivere.
I ragazzi Walter:
STAI LEGGENDO
Uno splendido errore ~ My Life with the Walter Boys
ChickLitJackie non ama le sorprese e considera il caos il suo peggior nemico. Ha capito presto che il modo migliore di ottenere un po' di considerazione dai genitori troppo impegnati è quello di essere perfetta. E così si è trasformata nella figlia che chiu...