Volevo andare a mangiare un gelato. Sapete com'è, di quelli che saltano alla mente durante una ronda di quattro ore sotto il pico del sole per conto del boss davanti a un deposito di rilevante importanza. Ecco, di quelli che si vorrebbe ghiacciassero i denti, le gengive, il naso, la fronte, le tempie, e tutto il resto della testa, fin dentro il cranio, là dove alloggia il cervello. Un gelato per fermare un po' i pensieri anche, quelli che vanno, corrono, scorrono e guai a chi li oscura con metodi elusivi che servono a cambiare argomento durante una discussione poco interessante, pericolosi al solo nominarli. Mi andava proprio un gelato per dimenticarmi del sudore versato di fronte a un deposito completamente inosservato da ladri e banditi, dell'inutile ronda che Mori-san mi aveva affidato, e del compagno che mi ero ritrovato accanto per tutto il maledetto tempo di supervisione delle merci. Mai la sua presenza mi aveva dato così fastidio, mi aveva recato tanto male di vivere, aveva reso quelle ore di caldo afoso opprimenti. Opprimenti, capite? Opprimenti come a volte lo è la temperatura, ma che raramente mi colpisce così in profondità.
Il culmine di tutto lo raggiunsi quando mancavano solo dieci minuti alla fine dell'incarico. Chuuya eri lì seduto sopra una cassa rossa di ruggine che si sistemava i suoi guanti, il cappello, il cappotto che Dio solo sa come facesse a tenersi con 40° C da me percepiti all'ombra e nel frattempo canticchiava anche una stupida nenia giapponese dalla melodia insignificante; fu allora che io, stanco, davvero stanco e stremato da quelle ore, gli urlai di smetterla di fischiettare quella canzoncina per bambini come una nonnina che cerca di addormentare i propri nipotini.
Questa è una testimonianza. Voi che leggete mi conoscete, presumo, per cui meravigliarsi è superfluo se dico che ho urlato contro il mio partner di lavoro Chuuya per ordinargli di chiudere il becco. Eppure, chissà perché, lui si stupì come chi non ha mai lavorato con me avrebbe fatto al solo sentire la mia voce alzare il tono. Davvero, mi chiedo spesso cosa passi dentro la testa a Chuuya, ma in quel momento... me lo domandai tanto da impazzire. Quasi.
«Ma che ti prende?» mi rispose, con una smorfia del viso che sembrava volesse sfidare il fastidio che stavo provando io in quel momento.
«Cosa significa "che ti prende"?» mi voltai verso di lui, allargando le braccia.
«È da quando siamo qui di guardia che mi fissi nervoso come se non avessimo mai lavorato insieme, e ora sbotti pure in questo modo da isterico quando potevi benissimo sopportare altri dieci minuti e andartene beatamente a fare in cul-»
«Fai silenzio. Ne ho abbastanza, vattene.» distolsi lo sguardo, iniziando a concentrarmi sul poco interessante terreno.
Chuuya alzò le sopracciglia; lo so perché ormai lo capisco. Un minimo rumore e comprendo già che sta facendo. La fronte si aggrotta leggermente, gli occhi strabuzzano come se fosse appena stato colpito da qualcuno e le spalle si rilassano per prepararsi a rispondere con la massima calma possibile.
«Cosa cazzo vuol dire, Dazai bastardo? Come faccio ad andarmene? Da quando posso fare quello che voglio?» peccato che non riesca mai a fare la persona calma.
Accennai un sorriso, alzai la testa e lo guardai dritto negli occhi; poi con un passo lento e misurato lo raggiunsi e continuai a reggere il suo sguardo furioso con tranquillità. Quella che lui non ha mai.
«Ti autorizzo io.»
«Vedi, bendato di merda, che io e te abbiamo lo stesso grado. Tu non autorizzi un bel niente.» mi puntò il dito sul petto spingendolo con forza, come a marchiarmi con il suo volere da pazzo scatenato la pelle, e mi scostò violento come un colpo di vento improvviso, superandomi.
«Mancano due minuti. Faccio un ultimo giro e ti saluto per sempre.» si allontanò sparendo dietro il deposito.
Tirai un sospiro di sollievo. Non ero per niente soddisfatto di quella discussione, non avevo nemmeno più voglia del gelato. Eppure sembrava che mi fossi tolto un peso. No, non quel peso. Avevo sempre la terribile sensazione di non essere per nulla parte del mondo in cui vivevo, in cui, più che altro, sopravvivevo. Di appartenere a una dimensione inesistente, buia, indefinita, e di essere stato per sbaglio catapultato in un luogo così pieno di vita, di gioia, di dolore, di sentimenti per me quasi totalmente incomprensibili. Come la rabbia che Chuuya prova sempre nei miei confronti, l'odio che impersona quando è con me. Mi influenza e mi fa per poco dimenticare di non essere altro che fango sporco in una terra ancora più sporca la quale finge di essere perfetta; mi rendo conto, ogni minuto che passo in sua presenza, di condurre una vita meschina, senza un vero motivo che mi permetta di viverla. Quel peso che conoscete tanto bene non lo affronto mai davvero. Non merito né di parlarne né di giustificare le mie azioni. Mi considerano un demone che controlla ogni forma di esistenza e la manipola a proprio vantaggio, per poi spezzarla e frantumarla, come se l'avessi tenuta sul palmo della mano e l'avessi stretta tanto forte da non lasciarne più le tracce. E un po' li capisco, comprendo la gente che mi vede con orrore. Ma l'unica cosa che so di essere è un uomo difficile a definirsi tale. Nulla è ciò che sento e provo eppure, quando Chuuya mi è vicino, mi infastidisco. Lo insulto, gli urlo, magari lo prendo pure a pugni quando siamo particolarmente di malumore.
Vi informo di questo perché le vicende che seguirono dopo la nostra missione mi destabilizzarono più di ogni altra cosa. Perché dopo che Chuuya si allontanò e io rimasi lì, a ragionare su quanto un gelato mi avrebbe fatto bene e su quanto lo avrei allo stesso tempo disgustato, uno dei tanti pensieri che ogni giorno cerco di tenere a bada venne fuori come un fungo in mezzo alle radici degli alberi.
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Intermittenza
Fanfiction- Questa è una testimonianza. - È Dazai a parlare. È lui che si mostra per una volta agli altri. Questa è la sua prima e unica testimonianza di uno degli ultimi momenti con Chuuya. Mai noi abbiamo letto di Dazai come fossimo dentro la sua testa, e q...