Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale
impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro,
che una mano che gira una manovella.
Questo doveva avvenire, e questo è finalmente avvenuto!
L'uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti,
ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s'è messo a fabbricar di
ferro, d'acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse.
Viva la Macchina che meccanizza la vita!
Vi resta ancora, o signori, un po' d'anima, un po' di cuore e di mente? Date, date qua alle macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, che prodotto di deliziose stupidità ne sapranno
cavare.
Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da voi ogni giorno,
ogni ora, ogni minuto?
È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi per la creazione di
questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per forza, i nostri padroni.
La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra anima, di divorar
la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l'anima e la vita, in produzione centuplicata e
continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d'uno stampo, stupidi e precisi, da
farne, a metterli sù, uno su l'altro, una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. Ma che stelle, no,
signori! Non ci credete. Neppure all'altezza d'un palo telegrafico. Un soffio li abbatte e li ròtola giù,
e tal altro ingombro, non più dentro ma fuori, ce ne fa, che - Dio, vedete quante scatole, scatolette,
scatolone, scatoline? - non sappiamo più dove mettere i piedi, come muovere un passo. Ecco le
produzioni dell'anima nostra, le scatolette della nostra vita!
Che volete farci? Io sono qua. Servo la mia macchinetta, in quanto la giro perché possa
mangiare. Ma l'anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano; cioè serve alla macchina. L'anima in
pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi signori, alla macchinetta ch'io giro. Mi divertirò a
vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo
dico io.
Già i miei occhi, e anche le mie orecchie, per la lunga abitudine, cominciano a vedere e a sentir
tutto sotto la specie di questa rapida tremula ticchettante riproduzione meccanica.
Non dico di no: l'apparenza è lieve e vivace. Si va, si vola. E il vento della corsa dà un'ansia
vigile ilare acuta, e si porta via tutti i pensieri. Avanti! Avanti perché non s'abbia tempo né modo
d'avvertire il peso della tristezza, l'avvilimento della vergogna, che restano dentro, in fondo. Fuori, è
un balenìo continuo, uno sbarbàglio incessante: tutto guizza e scompare.
Che cos'è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è passata.
C'è una molestia, però, che non passa. La sentite? Un calabrone che ronza sempre, cupo, fosco,
brusco, sotto sotto, sempre. Che è? Il ronzìo dei pali telegrafici? lo striscìo continuo della carrùcola
lungo il filo dei tram elettrici? il fremito incalzante di tante macchine, vicine, lontane? quello del
motore dell'automobile? quello dell'apparecchio cinematografico?
Il bàttito del cuore non s'avverte, non s'avverte il pulsar delle arterie. Guaj, se s'avvertisse! Ma
questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e dice che non è naturale tutta questa furia turbinosa,
tutto questo guizzare e scomparire d'immagini; ma che c'è sotto un meccanismo, il quale pare lo
insegua, stridendo precipitosamente.
Si spezzerà?
Ah, non bisogna fissarci l'udito. Darebbe una smania di punto in punto crescente,
un'esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire.
In nulla, più in nulla, in mezzo a questo tramenìo vertiginoso, che investe e travolge,
bisognerebbe fissarsi. Cogliere, attimo per attimo, questo rapido passaggio d'aspetti e di casi, e via,
fino al punto che il ronzìo per ciascuno di noi non cesserà.
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