Non posso levarmi dalla mente l'uomo incontrato un anno fa, la sera stessa che arrivai a Roma.
Di novembre, sera rigidissima. M'aggiravo in cerca d'un modesto alloggio, non per me, uso a
passar le notti all'aperto, amico delle nottole e delle stelle, quanto per la mia valigetta, ch'era tutta la
mia casa, lasciata in deposito alla stazione; allorché m'imbattei per caso in un mio amico di Sassari,
da molto tempo perduto di vista: Simone Pau, uomo di costumi singolarissimi e spregiudicati. Udite
le mie misere condizioni, egli mi propose d'andare a dormire per quella sera nel suo albergo.
Accettai, e ci avviammo a piedi per le vie quasi deserte. Cammin facendo, gli parlavo delle mie
molte disgrazie e delle scarse speranze che m'avevano condotto a Roma. Simone Pau alzava di tratto in tratto la testa scoperta, su cui i lunghi capelli grigi, lisci, sono spartiti in mezzo da una
scriminatura alla nazzarena, ma a zig-zag, perché fatta con le dita, in mancanza di pettine. Questi
capelli, poi, tirati di qua e di là dietro gli orecchi, gli formano una curiosa zazzeretta rada, ineguale.
Cacciava via una grossa boccata di fumo e restava un pezzo, ascoltandomi, con l'enorme bocca
tumida aperta, come quella di un'antica maschera comica. Gli occhi sorcigni, furbi, vivi vivi, gli
guizzavano intanto qua e là come presi in trappola nella faccia larga rude, massiccia, da villano
feroce e ingenuo. Credevo rimanesse in quell'atteggiamento, con la bocca aperta, per ridere di me,
delle mie disgrazie e delle mie speranze. Ma, a un certo punto, lo vidi fermare in mezzo alla via
vegliata lugubremente dai fanali e gli sentii dir forte nel silenzio della notte:
- Scusa, e come so io del monte, dell'albero, del mare? Il monte è monte, perché io dico: Quello
è un monte. Il che significa: io sono il monte. Che siamo noi? Siamo quello di cui a volta a volta ci
accorgiamo. Io sono il monte, io l'albero, io il mare. Io sono anche la stella, che ignora se stessa!
Restai sbalordito. Ma per poco. Ho anch'io - inestirpabilmente radicata nel più profondo del
mio essere - la stessa malattia dell'amico mio.
La quale, a mio credere, dimostra nel modo più chiaro, che tutto quello che avviene, forse
avviene perché la terra non è fatta tanto per gli uomini, quanto per le bestie. Perché le bestie hanno
in sé da natura solo quel tanto che loro basta ed è necessario per vivere nelle condizioni, a cui
furono, ciascuna secondo la propria specie, ordinate; laddove gli uomini hanno in sé un superfluo,
che di continuo inutilmente li tormenta, non facendoli mai paghi di nessuna condizione e sempre
lasciandoli incerti del loro destino. Superfluo inesplicabile, chi per darsi uno sfogo crea nella natura
un mondo fittizio, che ha senso e valore soltanto per essi, ma di cui pur essi medesimi non sanno e
non possono mai contentarsi, cosicché senza posa smaniosamente lo mutano e rimutano, come
quello che, essendo da loro stessi costruito per il bisogno di spiegare e sfogare un'attività di cui non
si vede né il fine né la ragione, accresce e còmplica sempre più il loro tormento, allontanandoli da
quelle semplici condizioni poste da natura alla vita su la terra, alle quali soltanto i bruti sanno restar
fedeli e obbedienti.
L'amico Simone Pau è convinto in buona fede di valere molto più d'un bruto, perché il bruto
non sa e si contenta di ripeter sempre le stesse operazioni.
Sono anch'io convinto ch'egli valga molto più d'un bruto, ma non per queste ragioni. Che giova
all'uomo non contentarsi di ripeter sempre le stesse operazioni? Già, quelle che sono fondamentali e
indispensabili alla vita, deve pur compierle e ripeterle anch'egli quotidianamente, come i bruti, se
non vuol morire. Tutte le altre, mutate e rimutate di continuo smaniosamente, è assai difficile non
gli si scoprano, presto o tardi, illusioni o vanità, frutto come sono di quel tal superfluo, di cui non si
vede su la terra né il fine né la ragione. E chi ha detto al mio amico Simone Pau, che il bruto non
sa? Sa quello che gli è necessario e non s'impaccia d'altro, perché il bruto non ha in sé alcun
superfluo. L'uomo che l'ha, appunto perché l'ha, si pone il tormento di certi problemi, destinati su la
terra a rimanere insolubili. Ed ecco in che consiste la sua superiorità! Forse quel tormento è segno e
prova (speriamo, non anche caparra!) di un'altra vita oltre la terrena; ma, stando così le cose su la
terra, mi par proprio d'aver ragione quando dico ch'essa è fatta più pe' bruti che per gli uomini.
Non vorrei esser frainteso. Intendo dire, che su la terra l'uomo è destinato a star male, perché ha
in sé più di quanto basta per starci bene, cioè in pace e pago. E che sia veramente un di più, per la
terra, questo che l'uomo ha in sé (e per cui è uomo e non bruto), lo dimostra il fatto, ch'esso - questo
di più - non riesce a quietarsi mai in nulla, né di nulla ad appagarsi quaggiù, tanto che cerca e chiede
altrove, oltre la vita terrena, il perché e il compenso del suo tormento. Tanto peggio poi l'uomo vi
sta, quanto più vuole impiegare su la terra stessa in smaniose costruzioni e complicazioni il suo
superfluo.
Lo so io, che giro una manovella.
Quanto al mio amico Simone Pau, il bello è questo: che crede d'essersi liberato d'ogni superfluo
riducendo al minimo tutti i suoi bisogni, privandosi di tutte le comodità e vivendo come un
lumacone ignudo. E non s'accorge che, proprio all'opposto, egli, così riducendosi, s'è annegato tutto
nel superfluo e più non vive d'altro. Quella sera, appena giunto a Roma, io ancora non lo sapevo. Lo conoscevo, ripeto, di costumi
singolarissimi e spregiudicati, ma non avrei potuto mai immaginare che la singolarità sua e la sua
spregiudicatezza arrivassero fino al punto che dirò.