Pervenuti in fondo al Corso Vittorio Emanuele, passammo il ponte. Ricordo che mirai quasi
con religioso sgomento la fosca mole rotonda di Castel Sant'Angelo, alta e solenne sotto lo sfavillìo
delle stelle. Le grandi architetture umane, nella notte, e le costellazioni del cielo pare che
s'intendano tra loro. Nella frescura umida di quell'immenso sfondo notturno, sentii quel mio
sgomento sobbalzare, guizzare come per tanti brividi, che forse mi venivano dai riflessi serpentini
dei lumi degli altri ponti e delle dighe, nell'acqua nera, misteriosa, del fiume. Ma Simone Pau mi
strappò a quell'ammirazione, volgendo prima verso San Pietro, poi scantonando per il Vicolo del
Villano. Incerto della via, incerto di tutto, nel vuoto orrore delle vie deserte, piene di strane ombre
vacillanti nei radi rivèrberi rossastri dei fanali, a ogni soffio d'aria, sui muri delle vecchie case,
pensavo con terrore e con nausea alla gente che dormiva sicura in quelle case e non sapeva com'esse
apparissero di fuori a chi errava sperduto per la notte, senza che per lui ce ne fosse una, ove potesse
entrare. Di tratto in tratto, Simone Pau crollava il testone e si picchiava il petto con due dita. Oh sì!
Il monte era lui, l'albero era lui, il mare era lui; ma l'albergo dov'era? Là, a Borgo Pio? Sì, là vicino:
al Vicolo del Falco. Alzai gli occhi; vidi a destra di quel vicolo un casamento tetro con una lanterna
sospesa davanti al portone: una grossa lanterna, ove la fiammella del becco sbadigliava a traverso i
vetri sudici. Mi fermai davanti a quel portone mezzo chiuso e mezzo aperto, e lessi su l' arco:
OSPIZIO DI MENDICITÀ
- Tu dormi qua?
- E ci mangio anche. Ciotole di minestre squisite. In ottima compagnia. Vieni: sono di casa.
Difatti, il vecchio portinajo e due altri addetti alla sorveglianza dell'ospizio, raccolti e curvi tutti e
tre attorno a un braciere di rame lo accolsero come un ospite consueto, salutandolo coi gesti e con la
voce dalla bacheca dell'androne rintronante:
- Buona sera, signor Professore.
Simone Pau mi prevenne, cupo, con molta serietà, che non mi facessi illusioni perché in
quell'albergo non avrei potuto dormire per oltre sei notti di seguito. Mi spiegò, che ogni sei notti
bisognava che ne passassi fuori per lo meno una all'aperto, per poi ripigliare la serie.
Io, dormire là?
Innanzi a quei tre sorveglianti, ascoltai la spiegazione con un sorriso afflitto, che pur mi
nuotava lieve lieve su le labbra, come per tenermi l'anima a galla e impedirle di sprofondare nella
vergogna di quel basso fondo.
Quantunque in misere condizioni e con poche lire in tasca, ero vestito bene, coi guanti alle
mani, le ghette ai piedi. Volevo prendere l'avventura, con quel sorriso, come un capriccio bislacco
del mio strano amico. Ma Simone Pau se n'irritò:
- Non ti par serio?
- No, caro, veramente non mi par serio.
- Hai ragione, - disse Simone Pau. - Serio veramente serio, sai chi è? è il dottore senza collo,
vestito di nero, con grossa barba nera e occhiali a staffa, che nelle piazze addormenta la
sonnambula. Io non sono ancora serio fino a questo punto. Puoi ridere, amico Serafino.
E seguitò a spiegarmi, che - tutto gratis, lì. D'inverno, nella branda, due lenzuola di bucato
solide e fresche come vele di barca, e due grosse coperte di lana; d'estate, le sole lenzuola e una
lucchesina per chi la vuole; poi, un accappatojo e un pajo di pantofole di tela con suola di corda,
lavabili.
- Bada bene, lavabili E perché?
- Ti spiego. Con quelle pantofole e con quell'accappatojo ti danno una tessera; tu entri in quello
spogliatojo là - quella porta là, a destra - ti spogli e consegni gli abiti, scarpe comprese, per la
disinfezione, che si fa nei forni, di là. Quindi... ecco, vieni qua, guarda... Vedi questa bella piscina?
Sprofondai gli occhi e guardai.
Piscina? Era un antro mùffido, angusto e profondo, una specie di cava da ricettarvi majali,
tagliata nella pietra viva per lungo, a cui si scendeva per cinque o sei gradini e da cui esalava un
puzzo ardente di lavatojo. Un tubo di latta, tutto a forellini gialli di ruggine, vi correva sopra, in
mezzo, da un capo all'altro.
- Ebbene?
- Ti spogli di là; consegni gli abiti...
-...scarpe comprese...
-...scarpe comprese, per la disinfezione, e t'introduci nudo qua dentro.
- Nudo?
- Nudo in compagnia d'altri sei o sette nudi. Uno di questi cari amici qua della bacheca apre la
chiavetta dell'acqua, e tu, sotto il tubo, zifff... ti prendi gratis, in piedi, una bellissima doccia. Poi
t'asciughi magnificamente con l'accappatojo, ti calzi le pantofole di tela, te ne sali zitto zitto in
processione con gli altri incappati per la scala; eccola qua; là c'è la porta del dormitorio, e buona
notte.
- Imprescindibile?
- Che? La doccia? Ah, perché tu hai i guanti e le ghette, amico Serafino? Ma te le puoi levare
senza vergogna. Ciascuno qua si leva le proprie vergogne d'addosso, e si presenta nudo al battesimo
di questa piscina! Non hai il coraggio di scendere fino a queste nudità?
Non ce ne fu bisogno. La doccia è obbligatoria solo per i mendicanti sporchi. Simone Pau non
l'aveva mai presa.
Egli è lì, veramente, professore. Sono annessi a quell'asilo notturno una cucina economica e un
ricovero per i ragazzi senza tetto, d'ambo i sessi, figli di mendicanti, figli di carcerati, figli di tutte le
colpe. Sono sotto la custodia di alcune suore di carità, che han trovato modo d'istituire per essi
anche una scoletta. Simone Pau, quantunque per professione nimicissimo dell'umanità e di qualsiasi
insegnamento, dà lezione con molto piacere a quei ragazzi, per due ore al giorno, la mattina per
tempo; e i ragazzi gli vogliono un gran bene. Egli ha là, in compenso, alloggio e vitto: cioè una
cameretta, tutta per lui, comoda e decente, e un servizio di cucina particolare, insieme con quattro
altri insegnanti, che sono un povero vecchietto pensionato dal Governo pontificio e tre zitellone
maestre, amiche delle suore e lì ricoverate. Ma Simone Pau lascia il vitto particolare perché a
mezzogiorno non è mai all'ospizio, e soltanto la sera, quando gli va, prende qualche ciotola di
minestra dalla cucina comune; tiene la cameretta, ma non ne approfitta mai, perché va a dormire nel
dormitorio dell'asilo notturno, per la compagnia che vi trova, e a cui ha preso gusto, di esseri obliqui
e randagi. Tolte quelle due ore di lezione, passa tutto il tempo nelle biblioteche e nei caffè; ogni
tanto, stampa su qualche rassegna di filosofia uno studio che stordisce tutti per la bizzarra novità
delle vedute, la stranezza delle argomentazioni e la copia della dottrina; e si rimpannuccia.
Io, allora, ripeto, non sapevo tutto questo. Credevo, e forse in parte era vero, ch'egli mi avesse
condotto lì per il piacere di sbalordirmi; e poiché non c'è miglior mezzo di sconcertare chi voglia
sbalordirvi con paradossi sbardellati o con le più strane e bislacche proposte, che fingere d'accettar
quei paradossi come fossero le verità più ovvie e quelle proposte come naturalissime e del caso;
così feci io quella sera, per sconcertare il mio amico Simone Pau. Il quale, capito il mio proposito,
mi guardò negli occhi e, vedendomeli perfettamente impassibili, esclamò sorridendo:
- Come sei imbecille!
Mi profferse la sua cameretta; credetti in principio che scherzasse; ma quando m'assicurò che
aveva lì veramente una cameretta per sé non volli accettare e andai con lui nel dormitorio dell'asilo.
Non me ne pento, perché al disagio e al ribrezzo che provai in quell'orrido luogo ebbi due
compensi1° quello di trovare il posto, che occupo al presente, o meglio, l'occasione di entrare come
operatore nella grande Casa di cinematografia La Kosmograph;
2° quello di conoscere l'uomo, che per me è rimasto il simbolo della sorte miserabile, a cui il
continuo progresso condanna l'umanità.
Ecco, prima, l'uomo
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