Ἀρά (Ara): maledizione, danno, sventura; spirito della vendetta.
Sento una fredda lama metallica che mi penetra nella carne, lentamente, dandomi tutto il tempo di realizzare quel che sta succedendo.
Percepisco il sangue uscire copiosamente dalla ferita slabbrata sul mio fianco. Ho gli occhi chiusi, cerco di prepararmi al dolore, ma non basta: la sensazione che la ferita stia letteralmente bruciando mi assale un attimo dopo, mandandomi nel panico.
Stringo convulsamente le dita, artigliando la prima cosa che mi capita sotto mano senza neanche capire cosa sia. Ho i muscoli contratti e il viso immobilizzato in una smorfia, e il dolore non vuole decidersi a sparire.
Riesco a non urlare, perché sono quasi abituata a tutto questo, ma non posso impedirmi di piangere. Un oceano salato si riversa dai miei occhi goccia a goccia, rapido come il sangue che mi sta abbandonando.
Sento le gambe cedere, il respiro affannarsi, il battito del cuore farsi sempre più irregolare.
Poi, finalmente, sento la morte. Espiro una sola volta ancora, consapevole che dal mio corpo sta uscendo qualcosa più della semplice aria.
Per un istante, vedo solo buio. Sento freddo, tanto freddo, e una forza inarrestabile che mi attira verso il basso.
Poi improvvisamente riprendo a respirare, a grandi boccate, come riemergendo da un'immersione in apnea. Inspiro avidamente, cercando di riprendermi, e spalanco gli occhi: sono seduta alla scrivania della mia camera, la mia pelle è perfettamente intatta e il mio sangue segue il suo regolare percorso lungo arterie e capillari. Ma quando abbasso lo sguardo sulla sedia, vedo che le mie unghie si sono rotte e scheggiate cercando di graffiare il legno. E le lacrime mi bagnano ancora il viso.
Le asciugo nella manica con un gesto veloce.
Dopo tutto questo tempo, non mi sono ancora abituata. Dovrei essere diventata quasi insensibile, capace di andare avanti come se nulla fosse. Eppure non ci riesco. Tanto meno in situazioni così.
Controllo l'ora: sono le 16,34. Questa morte è durata parecchi minuti, purtroppo, ed è anche stata dolorosa.
Rivolgo uno sguardo al cielo fuori dalla finestra, come per cercare di vedere quell'anima fluttuare verso l'alto. Doveva essere vicina, la sentivo distintamente. Eppure anche questa volta non vedo nulla, solo nuvole grigie e pesanti. Se il Paradiso fosse sopra di noi, avrei la certezza che ce ne andiamo tutti a marcire all'Inferno, penso con rassegnazione. E non solo per il mancato avvistamento, ma per quella sensazione orribile che provo sempre alla fine, come se qualcosa mi risucchiasse verso il terreno.
Sospiro, ed esco dalla mia camera per cercare qualcosa da mangiare. I miei "piccoli svenimenti" mi lasciano sempre affamata, come se quel che accade agli altri in qualche modo indebolisse anche me.
Mi chiamo Cassandra - sì, come la profetessa dell'Iliade, quella a cui non credeva nessuno perché Apollo l'aveva maledetta, e anche io ho la mia Maledizione: ogni giorno, in momenti diversi, in modi diversi, io muoio.
STAI LEGGENDO
The Garden of Death
General Fiction"Mi chiamo Cassandra - sì, come la profetessa dell'Iliade, quella a cui non credeva nessuno perché Apollo l'aveva maledetta, e anche io ho la mia Maledizione: ogni giorno, in momenti diversi, in modi diversi, io muoio." Cassandra Vitali trova che ci...