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Jimin si strinse tra le coperte del suo letto. Aveva le guance rigate da innumerevoli lacrime salate; la schiena segnata dai colpi della cintura bruciava come fiamme, e la caviglia faceva male ad ogni minimo movimento.

Sì asciugò il viso con la manica della felpa che indossava, singhiozzando. Non aveva mai visto i suoi genitori così arrabbiati. Non avevano mostrato un minimo di empatia nei confronti del figlio e della sua frattura, anzi: appena entrato in casa l'avevano preso a schiaffi, urlandogli addosso che era una delusione. Suo padre, poi, si era tolto la cinta, e senza perdere un attimo l'aveva frustato.

Jimin aveva provato più e più volte a chiedere scusa tra le urla, ma non era servito a niente. Era come se non lo ascoltassero. Avevano continuato a punirlo duramente per il suo comportamento, facendolo sentire un fallimento.

Non aveva intenzione di alzarsi dal materasso, non voleva vedere nessuno. Da solo stava meglio, non gli serviva nessuno. Si mise a sedere, stringendosi i capelli nel pugno della mano dalla rabbia.

Non riusciva a smettere di piangere. Non aveva mai disubbidito a sua madre e suo padre, mai nella sua vita. Non aveva mai nemmeno pensato di farlo, ma quella sera non era proprio riuscito a stare fermo e farsi comandare a bacchetta; era stato più forte di lui. Non era una bambola, aveva sentimenti, emozioni, e tante cose da dire. Quel matrimonio gli avrebbe solo rovinato la vita, e lui non voleva.

La porta si aprì con un piccolo cigolio, e il dolce viso di Matilda spuntó da dietro il muro. "Posso entrare, Jiminie?" chiese con voce educata. Jimin rispose con un mugolio, cadendo di schiena sul materasso e girandosi su un fianco, dando le spalle alla donna.

La porta si richiuse, e sentì l'anziana avvicinarsi e sedersi accanto a lui. Appoggiò la mano alla sua spalla, accarezzandogli la pelle graffiata dalle radici degli alberi e dalle cinghiate del padre.

"Piccolo mio...mi dispiace così tanto. Sai che non ho potuto fermarli in alcun modo." gli disse dolcemente, mantenendo un tono basso e rassicurante, quasi sussurrato. Jimin trattenne un singhiozzo, poi tirò su con il naso. "Non importa.." fece. Gli occhi gli bruciavano.

"Importa. Lo sai che ti voglio tanto bene, e sai che riesco a capirti più di chiunque altro. Lo vedo che non sei felice della tua vita."

"Io non so nemmeno cosa significhi essere felice..." ammise Jimin con una voce flebile. Era la prima volta che lo diceva ad alta voce, e si sentiva come se l'avesse ammesso a sé stesso per la prima volta. Rendersi conto di non aver mai sperimentato un vero momento di gioia lo abbatteva.

Matilda non fiatò, stette in silenzio qualche minuto, continuando ad accarezzargli il braccio. "Dobbiamo disinfettare i graffi che hai sul corpo, Jiminie, o ti faranno infezione..."

Jimin non rispose. Sì sollevò un po' dolorante dal letto, emettendo un gemito di dolore. Una volta seduto si tolse la felpa, rimanendo a petto nudo. La donna, nel frattempo, aveva acceso la lampada presente sulla scrivania adiacente al letto dell'adolescente.

Con quanta più delicatezza possibile pulí le ferite del ragazzo, scusandosi ogni qual volta che si lamentava del bruciore, ma d'altronde non poteva far altrimenti.

Una decina di minuti dopo la donna finì, e quindi prese a bendare la caviglia del ragazzo. Doveva farsi vedere da un medico in ogni caso, ma una fasciatura l'avrebbe almeno tenuta ferma.

"Fatto. Puoi rimetterti la felpa adesso. Vedi di riposare, hai avuto una giornata stressante. Domani i tuoi genitori saranno fuori per quasi tutto il giorno, quindi ti lascerò dormire più del solito." gli disse, lasciandogli un dolce bacio sulla fronte. Gli angoli della bocca del ragazzo si curvarono in un leggero sorriso al gesto della donna.

Quest'ultima diede la buona notte al giovane, spense la luce, e lo lasciò solo nella sua stanza, con la sua malinconia.

Sì coprì fino al mento, cercando di dormire e lasciarsi alle spalle la brutta giornata appena passata, il ragazzo incontrato nel bosco quella stessa sera, e le botte ricevute dai genitori, ma i pensieri era fin troppo opprimenti e pesanti per potersi addormentare serenamente.

Sbuffò, cercando di alzarsi in piedi con lentezza. Sì aggrappò al muro per evitare di cadere, e zoppicante raggiunse la grande porta finestra della sua camera. L'aprì e si appoggiò al davanzale.

Inspirò profondamente l'aria fresca e frizzante della sera, che aveva un buon odore di pino e boscaglia. Chiuse gli occhi cercando di rilassarsi, poi alzò lo sguardo al cielo scuro, pieno zeppo di luci luminose.

Dentro di lui si stava scatenando una battaglia. Avrebbe voluto dimenticare tutto e tornare quello di prima, un ragazzino obbediente, rispettoso, educato, e grato per tutto ciò che avevano fatto i suoi genitori per lui, ma qualcosa lo bloccava.

Da solo in mezzo al bosco aveva provato un forte senso di paura, ma sotto sotto quella paura l'aveva fatto sentire vivo, libero. Non ne capiva il motivo; lui era libero come tutti, lo era sempre stato, ma non aveva mai sentito quella sensazione in tutta la sua vita.

Rimase lì per ore e ore a fissare l'orizzonte con sguardo vuoto e spento, e solo quando gli uccellini iniziarono a cantare e il cielo sì schiarì, sfumando in un blu più chiaro, decise di tornare a letto.

Rischiò di cadere, ma si resse alla scrivania, e si ributtò nuovamente sul materasso senza nemmeno coprirsi. Sì raggomitolò, e poco dopo cadde tra le accoglienti e dolci braccia di Morfeo, che lo accolse con calore.
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beh, sono in ritardo, ma non è una novità kekekekekke.

domani aggiorno breathin muah.

vi amo, come sempre.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jan 02, 2021 ⏰

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