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I due, quella mattina, continuarono tra baci e premure, tra caffè e brioche, tra una doccia e il rivestirsi a fatica, interrotto continuamente dai baci sulla pelle soffiati tra le risate; era quello che Jimin amava del suo lavoro: l'assoluta finzione della vita di coppia perfetta, le tenere gentilezze che gli venivano regalate solo per aver donato il suo corpo, le notti di fuoco che a volte erano piacevoli, altre no e, altre volte ancora, erano spettacolari – come quella con Yoongi.

Come tutte le cose belle, però, anche quella finzione a pagamento finì e Jimin si ritrovò solo in quella stanza, pensieroso; si sdraiò a letto, vestito, e cominciò a far vagare la mente a tutto ciò che avrebbe dovuto fare, che aveva fatto e che stava facendo: «Avrei dovuto farmi pagare di più.» perché il suo cuore era in pericolo e lo sapeva benissimo.

Rimase poco ad oziare: si alzò, prese la tessera apri-porta che gli era stata lasciata da Yoongi e si incamminò per i viali della sua città, osservando come sempre estasiato i canali d'acqua, le biciclette legate fuori dai portoni; sollevava gli occhi per osservare quanto alte e strette erano le abitazioni bianche delle vie centrali, con quei ganci non più utilizzati sopra i tetti, che un tempo sapeva essere serviti per prelevare le merci dalle barche nei canali, ormai coperti dai ciottoli dei marciapiedi.

Jimin camminò fino a casa sua, lasciandosi accarezzare dal vento, estraendo le chiavi e trovandosi nella sua abitazione un istante dopo, solo, come sempre; non abitava con nessuno da quando aveva racimolato un po' di denaro, da quando aveva scelto quella vita, quel lavoro, quella città. Il gigolò riempì un borsone di vestiti, mutande e calzini, ci mise dentro una confezione nuova delle sue lenti a contatto colorate, ci aggiunse i suoi profumi e creme idratanti preferite; anche se lui avrebbe potuto regalargli tutto a Jimin piaceva avere qualcosa di suo, come se stesse semplicemente andando in trasferta come ogni altro impiegato olandese. Quasi si dimenticò il caricatore del telefono, ma tornò in tempo nella sua camera appena prima di chiudersi la porta d'ingresso alle spalle.

Seppur poteva tornare in quella suite e ordinarsi la cena, lui, preferì camminare per le vie della sua città magica, fermarsi ad un chiosco e ordinando una birra e un panino, sedendosi a guardare i turisti passeggiare con sfondo il brillare del tramonto su un canale; amava guardare chi non abitava in quel paese camminare per le strade: si lasciavano trasportare da quell'immensa atmosfera caratteristica che solo Amsterdam riusciva a dare – o almeno così era per Jimin. Gli abitanti locali avevano dimenticato, davano tutto per scontato: i fiori, i rumori, i sorrisi.

Jimin si era ripromesso di non abituarsi mai e, fino a quel momento, ci era riuscito.

Fece sfiorare la punta della bottiglia di birra alle labbra e ne sorseggiò un po', appoggiandola poi sul tavolino d'acciaio davanti al chiosco quando sentì vibrare il telefono: «Pronto?» rispose velocemente, portando l'apparecchio all'orecchio.

La voce di Yoongi era bassa, come sempre: «Questa notte non ci sarò, ma domani mattina passo a prenderti e staremo insieme tutto il giorno, va bene?» e quella domanda posta alla fine, Jimin lo sapeva benissimo, era pura cortesia.

«Come vuoi tu, tesoro.» aleggiò un silenzio imbarazzato, o almeno così sembrò finché Jimin non ridacchiò divertito «Ti dà fastidio? Come vuoi che ti chiami?» era così abituato, a quei nomignoli.

Yoongi sospirò all'altro capo del telefono, mentre si guardava allo specchio della sua camera d'albergo e si sistemava il nodo alla cravatta, osservando più volte il riflesso della porta chiusa dietro di loro, preferendo che la sua conversazione telefonica rimanesse segreta: «In realtà vorrei che tu mi chiamassi come vuoi».

La risata cristallina di Jimin all'altro capo lo fece sorridere silenzioso: «Come voglio io? Anche se non ti piace?»

Gli occhi neri e profondi di Yoongi si socchiusero leggermente al sollevare degli angoli della bocca: «In realtà, vorrei che queste due settimane tu mi mostrassi te stesso, senza i filtri del lavoro».

«Ah ma...» sentiva la voce ironica del gigolò, come se pensasse fosse parte del gioco, come se non avesse capito che Yoongi faceva sul serio «così ti stancherai di me, sono un tale stronzo».

«Non importa, ho bisogno di capire la tua essenza, mia musa.» e Yoongi non poté vederlo, ma il profondo respiro che sentì e la lunga pausa gli fecero immaginare il volto pulito di Jimin arrossarsi leggermente, come aveva fatto ad ogni sua frase la notte precedente.

«Va bene, Yoongi.» rispose quasi freddamente, come se non fosse abituato o avesse paura di una reazione.

«A domani, mi faccio vivo io verso le sette.» non aspettò altro, abbassò il telefono e interruppe la chiamata, infilandosi il cellulare in tasca, per poi avviarsi alla porta nel suo abito elegante e uscire nel corridoio.

«Ah, sei pronto finalmente.» sbuffò Jin alzando gli occhi al cielo e dandogli le spalle «Dai, vediamo di arrivare in orario».

Yoongi e Jungkook si lanciarono un'occhiata veloce e cercarono di fermare i loro sorrisi beffardi, scuotendo le teste alla reazione di Jin, così classica e ovvia da farla diventare quasi divertente o, almeno, a renderla meno fastidiosa.

I tre si ritrovarono di nuovo assieme, di nuovo intenti a sfoggiare la loro ricchezza in un locale importante, discutendo di politica e di gossip, discorsi che chiunque faceva a tavola con la differenza che loro ne parlavano con informazioni dirette e conoscendo in prima persona i nomi che citavano, gli altri, invece, potevano speculare solo su informazioni prese dai giornali o dalla televisione.

«Quindi, stanotte?» chiese improvvisamente Jungkook, lanciando a Yoongi un'occhiatina divertita. Jin sollevò gli occhi al cielo e sospirò, senza dire nulla.

L'artista sollevò il sopracciglio: «Stanotte cosa?» chiese, facendo finta di niente, continuando a tagliare la sua bistecca con forchetta e coltello, portandosene poi un pezzo alla bocca e masticando educatamente senza far staccare le labbra tra loro.

Il minore dei tre ridacchiò e fece scoccare la lingua sul palato: «Per favore, non prenderci in giro...» piegò la testa verso Jin e cercò man forte da lui «Vero che a te non importa se si è scopato qualcuna?»

Il cognato finì di masticare il suo boccone, si portò un tovagliolo di stoffa alle labbra e le tamponò con gentilezza, riappoggiandolo poi con un gesto spazientito sul tavolo: «Siamo qui apposta, lo sa anche lei, in fondo, basta che non lo venga a sapere direttamente».

Jungkook schioccò le dita in aria e indicò prima Jin e poi Yoongi: «La beata ignoranza, il genio che l'ha inventata.» per poi poggiare il gomito sul tavolo e avvicinarsi con il busto all'amico «Quindi?»

Yoongi fece un profondo respiro, chiuse gli occhi, si beò dei ricordi della notte prima, dello sguardo e del sorriso di Jimin, del suo sapore, dei suoi movimenti: «Ho trovato una mostra d'arte.» rispose semplicemente, del tutto sincero «Mi ha ispirato da morire».

Jin si lasciò scappare una mezza risata, portando il suo sguardo in lontananza, e Jungkook arricciò il naso sbigottito, spalancando la bocca e borbottando: «Ci hai mollato per aver trovato una mostra? Ma fai sul serio amico?»

Yoongi rimase a guardare gli occhi scuri del ragazzo più piccolo per vari secondi, in un silenzio coperto dal vociare dei commensali intorno a loro, dal piano suonato al centro della sala, dal rintoccare delle posate e dei bicchieri: «Dovresti essere contento se trovo ispirazione, così non perderai il tuo lavoro.» si bagnò le labbra con un repentino passaggio della lingua su di esse «Non penso ti convenga molto tornare al tuo vecchio datore di lavoro, o sbaglio?»

Non vi è miglior modo – o, meglio, non vi è modo più sicuro – di interrompere un flusso di domande scomode introducendo un argomento ancor più pesante, ancor più fastidioso; il volto di Jungkook tornò serio immediatamente, i suoi occhi si abbassarono sul proprio piatto ancora pieno, Jin fece un leggero colpo di tosse a bocca chiusa, alzando un sopracciglio, colpito dalle parole appena sentite.

Il silenzio sostituì le risate, i discorsi e i gossip; il tempo che passava lento riuscì comunque a far girare le lancette fino ad un orario abbastanza tardivo da poter usare la scusa del sonno per dividersi. Ognuno tornò nella propria stanza, separati tra loro solo da un muro e dalla verità di una finta amicizia.

Yoongi fissò il soffitto a lungo, pensieroso, finché i contorni della lampada spenta – illuminata solo in parte dalle luci esterne – sfumarono, mischiandosi alle immagini dei sogni dell'artista: luci, colori, le labbra di Jimin, reminiscenze della sua infanzia; tutto si susseguì finché un raggio di sole non gli colpì il volto all'improvviso, sfuggito alla copertura delle nuvole grigie.

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