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Ansimarono, si diedero qualche secondo contemplativo.

Yoongi, dopo qualche istante, sentì di dover fare qualcosa: si girò su un fianco, si avvicinò a Jimin e lo strinse dolcemente tra le braccia, portandoselo al petto e poggiando la fronte sulla sua tempia. Il gigolò si lasciò abbracciare e chiuse gli occhi, ripensando a tutto ciò che era appena successo, a tutto ciò che aveva provato, al motivo per il quale fosse stato così bello lasciarsi andare completamente con lui, quasi come se la vergogna, insieme a Yoongi, fosse piacevole, una valvola di sfogo dal suo passato e dalle sue colpe presenti.

Jimin si girò su un fianco e poggiò la propria fronte su quella di Yoongi, avvicinarono i loro volti in silenzio, ma il maggiore non tentò di baciarlo, al contrario fece sfiorare le punte dei loro nasi, giocherellando con essi in modo affettuoso, come se si sentisse in dovere di scusarsi per come l'avesse trattato, sebbene l'altro si fosse dimostrato d'accordo.

Le lunghe dita dell'artista gli accarezzavano la schiena, le braccia, i capelli per poi finire sul suo volto e disegnargli la propria anima addosso: «Grazie.» lo soffiò dalle labbra appena aperte e Jimin si ritrovò a sorridere fin troppo per una parola così semplice. Jimin lo strinse più forte, poggiò le labbra su quelle dell'altro in un bacio frettoloso e bambinesco, sentì il proprio cuore cominciare a battere troppo forte rispetto a quanto avrebbe dovuto.

Si era messo nei casini.

«Dormiamo, Yoongi?» chiese, bisognoso di staccare la mente dai propri pensieri, così assolutamente disturbanti. Il biondo mugolò in assenso, si staccò da lui per spegnere le luci; si misero sotto le coperte, con le teste sui cuscini, tornarono ad abbracciarsi stretti, senza fermare quelle carezze dolci sulla pelle, i baci lasciati sul volto tra i sospiri.

Dopo una manciata di minuti il respiro dell'artista si fece più pesante e le sue dita smisero di muoversi delicate, trasportato nel mondo dei sogni, a differenza dell'altro che non riusciva a prendere sonno: i pensieri erano incessanti, le sue emozioni contrastanti, l'ansia talmente forte da fargli venire la tachicardia al solo immaginarsi di dover prendere una decisione.

La notte sembrò passare in un secondo a Yoongi, mentre per Jimin sembrò interminabile, arrivando ancora sveglio alle prime luci dell'alba, ancora tra le braccia dell'altro. Avrebbe potuto sottrarsi a quella presa e spostarsi, alzarsi, fare un giro in bagno, leggere qualcosa, uscire sul balcone a guardare le stelle; qualsiasi cosa avrebbe fatto correre il tempo poco più veloce rispetto al fissare il suo volto nel buio, abituandosi a quel colore scuro fino al ritrovare in esso i suoi lineamenti, i capelli chiari, le labbra sottili. Qualsiasi cosa l'avrebbe fatto stare meglio, ma non fece nulla di ciò, godendosi quell'abbraccio; perché sapeva che sarebbe potuto essere l'ultimo o sarebbe potuto essere uno dei tanti che ancora si sarebbero dati.

Quello, però, non spettava a lui deciderlo e il sapere di non poter cambiare il futuro lo stava distruggendo.

«Sei già sveglio?» un sorrisetto tirato, un arricciare del naso, l'espressione assonnata e con gli occhi ancora semichiusi, ma addolcita solo al guardarlo.

Jimin non si stupì nel sentirlo parlare, d'altronde lo fissava da ore, soprattutto con l'arrivo della luce del mattino, e aveva captato tutti gli indizi del suo risveglio: i movimenti leggeri del viso, il cambio del suo respiro, i mugolii della sua gola.

«Già.» rispose solo l'altro, evitando di spiegare la mancanza assoluta di sonno avuta, avvicinandosi al suo volto e poggiando le labbra sulle sue, donandogli un primo bacio del risveglio, ricambiato immediatamente e accompagnato ad un abbraccio.

«Buongiorno, Jimin.» lo salutò finalmente, aprendo ora gli occhi per guardarlo meglio e trasformando il suo sorriso in un'espressione sorpresa «Oh, hai le occhiaie piccolo.» sollevò la mano per accarezzargli la pelle sotto gli occhi «Hai avuto incubi?»

Jimin aveva sentito il cuore accelerare al sentirsi chiamare in quel modo, ma provò in tutti i modi a non darlo a vedere, bagnandosi le labbra rapidamente, con la punta della lingua, e scuotendo la testa: «Non che io ricordi, tranquillo.» lo disse in modo frettoloso, facendo uno sbuffò dalle narici e sollevandosi subito dopo, mettendosi seduto.

«Dormi ancora un po'.» lo invitò il biondo accarezzandogli la schiena, guardandolo da sdraiato, ma sospirando allo scuotere del capo dell'amante «Va... Tutto bene?» improvvisamente preoccupato.

Jimin deglutì, girò il volto verso di lui e sorrise: «Va tutto bene, ma mi sono ricordato di dover pagare l'affitto, ed è meglio che io vada a darlo a mano quindi...» interpretò bene la sua parte e mostrò un'espressione infastidita «Dovrò vestirmi e cercare di sbrigarmi».

Yoongi rimase a fissarlo con la bocca leggermente aperta, ancora preoccupato, con il cuore mosso da un pizzico di paura: «N-non...» si morse il labbro inferiore, ma poi prese forza «Non è per stanotte, vero?»

Un enorme sorriso apparve sul volto del gigolò che si buttò su di lui immediatamente, poggiando le labbra sulle gemelle sottili e sorridendogli addosso subito dopo un bacio a stampo: «No, tesoro.» si diedero altri baci a stampo, tanti, dicendosi in quegli scocchi quanto si trovassero bene sotto le coperte, quanto si piacessero e quanto ad entrambi piacesse vivere assieme quei momenti.

«Ora vado.» sospirò Jimin ancora sulla bocca dell'altro, risollevandosi finalmente e staccandosi da lui, poggiando i piedi a terra e sollevandosi, per poi dirigersi in bagno.

Quando era piccolo, il nonno di Jimin gli insegnava sempre proverbi cinesi; gliene aveva insegnati così tanti, prima di morire quell'autunno durante il quale lui aveva cominciato le elementari, che si erano mescolati tra di loro e gli era sempre sembrato di non ricordarne neanche uno perfettamente, in modo corretto. Ironico come, proprio quella mattina, gli venne in mente uno di quei proverbi: "Quando una freccia è incoccata sull'arco, prima o poi bisogna scoccarla". Era indubbio che Jimin avesse scelto la freccia con cura, l'avesse appoggiata e avesse tirato la corda. Doveva trovare il coraggio di lasciarla andare, perché a differenza degli archi veri non avrebbe potuto allentare la presa a disamare il tutto.

Doveva solo scegliere se continuare a puntare l'obiettivo o scagliare la freccia in cielo, senza sapere cosa avrebbe colpito.

E con la voce di suo nonno in mente, che gli ripeteva quelle parole, Jimin uscì dalla loro stanza d'albergo, si incamminò per la città di Amsterdam e dopo una mezz'ora si ritrovò a casa sua. Salì le scale, aprì la porta d'ingresso, la richiuse alle spalle e guardò il salotto: sulle mensole mancavano le cornici, erano ormai coperte solo dalla polvere che non si era premurato di togliere; il divano verde sembrava triste e spoglio senza la sua coperta blu notte arrotolata in un angolo, senza i calzini appoggiati sul bracciolo opposto a quello sul quale poggiava sempre la testa; lo stendino dei panni era ancora lì, aperto e con i suoi ultimi vestiti ormai asciutti, ma presto avrebbe dovuto chiuderlo e metterlo nel suo armadio, armadio che avrebbe trovato vuoto perché i suoi vestiti erano ormai nelle valigie al suo fianco, già poste all'ingresso tranne l'ultima, ancora a metà.

Prese il telefono dalla tasca, poggiò la schiena alla porta, aprì la rubrica sospirando poi, dopo aver fatto partire la chiamata, portò il telefono all'orecchio. Trovò occupato.

Jimin abbassò il telefono, qualcun altro, a varie strade di distanza, lo tenne tra la spalla e l'orecchio mentre si allacciava le scarpe: «Ora vengo lì e parliamo, va bene?»

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