Capitolo 4

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Il giorno dopo aspettavo un suo messaggio come i bambini aspettano con ansia i regali di Natale.
Nel pomeriggio arrivò.
"Allora? Sta sera ci sei?".
Risposi con un freddo: "Si. Solita ora solito posto?".
Dopo mezz'ora mi disse: "Porta il costume che facciamo il bagno sta notte. A sta sera."
Non avevo mai fatto il bagno di notte. Che dire? Cosa chiedere di più?
Passai il pomeriggio e la cena in modo tranquillo.
In fondo era una semplice serata, con un mio amico, in spiaggia.
Lui, puntuale come un orologio svizzero, era nel posto prefissato, con la sua solita sacchetta dell'Everlast dove aveva riposto costume, asciugamano e vari oggetti personali. Io avevo la mia borsa blu, con il cambio e l'asciugamano. Vestita con un normale top e dei pantaloncini.
Ci siamo diretti verso la fine delle spiagge del lungomare, in un posto abbastanza appartato, eravamo solo noi.
Che dire? Cosa chiedere di più?
Posizionammo gli asciugamani sulla spiaggia e ci mettemmo sdraiati, uno vicino all'altro a guardare il mare e le luci di A. di notte.
I primi dieci minuti siamo rimasti in silenzio. Ad osservare. Ad osservarci di sfuggita.
Poi lui, da grande uomo quale era, decise di fare il primo passo e buttarsi in acqua. Neanche il tempo di alzarmi che mi bloccò.
"Ali non buttarti!"
Incredula non stavo capendo che cosa fosse appena successo e lui percependo la mia faccia confusa aggiunse: "Ci sono le meduse! Mi ha appena punto il braccio...".
Io non riuscì a stare seria, scoppiai in una risata sguaiata affermando: "Ma vedi che sei proprio sfigato!" dentro di me pensai "Il mio sfigato." ma non era veramente così, non so se lo sarà mai...
Neanche il tempo di finire la frase che lo ritrovai, in piedi, davanti a me che cercava di prendermi di peso e buttarmi in acqua.
Io con movimenti da anguilla riuscivo a scappargli ad ogni tentativo.
Fu così che gli dissi di andarsi a sciacquare il braccio e tornare da me, lo avrei aspettato tranquillamente.
Dopo neanche due minuti tornò.
Gli chiesi se la medusata gli facesse male. Risposta?
"Un pochino, probabilmente se mi ci dai un bacino tu passa tutto!"
Io basita da quell'affermazione, da brava ragazzina di dodici anni in un corpo da diciottenne, non feci altro che ridere e dargli quel primo bacetto. Il primo dopo tutti gli anni di amicizia.
Ok è un segno d'affetto a caso, su un braccio, ma io ero felice.
Ero felice perché con lui non facevo altro che ridere e scherzare. Non faccio altro che ridere e scherzare. Ma dopo quella notte qualcosa cambiò.
Ci tranquillizzammo, io ero sdraiata con la testa sul suo braccio e guardavamo la luna.
Iniziammo a parlare delle cose più disparate, ma anche di cose serie.
Quella sera lui scoprì il mio passato, il passato della mia famiglia, le mie paure e le mie insicurezze. Io scoprii le sue.
Qualcosa stava cambiando.
Non era più l'amore folle da adolescente. Era diverso. Per entrambi.
Ci stavamo donando l'uno all'altro. Ci stavamo aprendo.
Il fatto che di lì a poco sarebbe partito lo stavo comprendendo solo in quel momento. Compresi il fatto che non lo avrei più visto per mesi. Iniziava a farmi male.
Continuammo a parlare così, passando da dei jokes a dei discorsi reali per tutta la sera.
Ma ci furono anche momenti di svago puro. Lui che di peso mi tirava su e mi ritrovavo in mezzo alla sue gambe, lui che mi dava dei bacini sul collo, che mi stuzzicava e io che stuzzicavo amorevolmente lui.
Stavamo bene.
Stavamo veramente bene.
Tra una cosa e l'altra si fece l'una di notte. Eravamo ancora in spiaggia.
Decidemmo di iniziare a prepararci per andare a casa, rigorosamente a piedi. Rigorosamente accompagnata da lui.
Ma ci fu un "intoppo". Un piacevolissimo intoppo.
I nuovi giochi dei bambini lungo la passeggiata erano completamente vuoti, oramai era l'una e mezza. Decidemmo di fermarci e come due infanti di dieci anni salimmo sull'altalena a cesta.
Sempre io e lui, vicini, sdraiati e dondolati a guardarci e parlare.
Che dire? Cosa potrei chiedere di più?
Oramai avevamo 18 e 20 anni, e stavamo vivendo la nostra adolescenza in ritardo. Ci comportavano come due ragazzini che non sanno cosa fare, ed effettivamente era così. Non sapevamo cosa fare. Non lo sappiamo neanche adesso, a 20 e 21 anni.
Si fecero le due. Non ero ancora stata così tanto fuori casa. Non avevo orari di sorta come coprifuoco, ma per una cosa e l'altra tornavo sempre a casa prima.
Fu così che ci incamminiamo verso casa.
Io avevo delle sneakers comode ai piedi, mi ero organizzata in previsione della lunga camminata.
Pian piano salivamo, godendoci il ritorno e continuando a parlare. Non so effettivamente di cosa stavano parlando. Non me lo ricordo. Abbiamo parlato di così tante cose che non mi ricordo che cosa avevamo sempre da dirci. Che cosa abbiamo sempre da dirci.
Non siamo stati un minuto in silenzio.
A me piacciono quelli con cui parlo dieci minuti e invece sono passate cinque ore.
Particolarmente lui.
"Finalmente" arrivammo sotto casa mia, ma nessuno dei due aveva il coraggio di salutarsi.
D'altronde dopo quella notte lì non ci saremmo più visti per tanto tempo.
Cosi rimanemmo seduti su una panchina dietro al campetto vicino a casa mia a parlare e osservarsi minuziosamente e scherzare e rimanere incollati l'uno all'altro. Chissene fregava degli insetti, del fresco e dell'ora. Eravamo io, lui e la luna piena.
Poi però si fecero le tre. Era effettivamente tardi ed eravamo stanchi.
Così ci salutammo, lì, su quella panchina.
"Mi mancherai in questi mesi..."
"Anche tu, non lo nego. Anzi. Ma è ciò che vuoi fare e quindi devi farlo."
"Lo so... Ma mi mancherai... Sarai sempre una delle persone che mi mancherà di più, sei quella che sa più cose di me, del vero me, qui..."
Così finí quella sera. Non avevamo il coraggio di abbracciarci, o semplicemente salutarci come fanno tutti. Perché noi non siamo come gli altri. Noi non saremo mai come gli altri.
Probabilmente non vogliamo essere come gli altri.

Between us, seas and mountains. Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora