10. C'è poco da ridere.

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Non avrebbe dovuto farlo, questo fu il solo pensiero che passò per la mente di Dominic mentre il ragazzo si trasformava in una molla. Non avrebbe dovuto colpirlo di nuovo, gli scappellotti non li sopportava. Facendosi risacca, Dom accompagnò con tutto il corpo il movimento di ritorno della testa, figlio della scoppola, e si alzò di scatto, lasciando cadere all’indietro la sedia che occupava. Fu quel rumore, quello del legno contro il pavimento, a far voltare la testa a Giivs e fu quel voltare la testa che portò Giivs a finire lungo disteso di fianco alla sedia, sul pavimento, privo di coscienza e con due denti in meno.
Voltandosi, l’uomo si era messo nell’esatta posizione in cui non avrebbe dovuto essere, aveva occupato lo spazio prenotato dalla testa di Dominic. Certo, il suo mento era arrivato lì per primo, una frazione di secondo, ma la prelazione era tutta a favore dell’altro, il “chi prima arriva meglio alloggia” era destinato ad avere una valenza breve, in quel contesto, quella frazione di secondo d’anticipo, nulla più.
Ci fu un attimo, quello in cui i piedi di Giivs si staccarono da terra e in cui Dominic strinse gli occhi per l’inaspettata scarica di dolore che dalla cima della testa gli arrivò alle gambe, nel quale il ragazzo – inconsapevole di cosa avesse colpito, di cosa stesse succedendo – pensò di lasciar correre, di rimettersi seduto, di stare buono e smetterla di collezionare figure di merda, ma fu solo un attimo, una sospensione che durò tanto quanto quella di Giivs, il suo volo, un attimo, e poi si spense nel suono prodotto da un peso morto a contatto col pavimento, tintinnio di denti, eco d’osso contro osso.

Continuando a massaggiarsi la testa, Dominic fissava il corpo di Giivs steso sul pavimento. La sensazione era quella d’aver fatto una cazzata, seppur non volendo, ma la voglia era quella di mettersi a ridere. Fu la donna a spezzare l’impasse, intercettandolo nel compromesso d’un sorriso.
«Bene. Che si fa ora, Dominic?» chiese lei, dal letto, gambe accavallate.
«Non lo so. Mi sa che Giivs si incazzerà un bel po’… » rispose lui, il sorriso passato dalle labbra agli occhi, per deontologia d’una professione non sua.
«Una possibile soluzione sarebbe quella di non esser qui quando si sveglierà.» disse lei, la voce intonata in una proposta.
«Ma… veramente… » esitò il ragazzo.
«Hai una macchina, Dom? Posso chiamarti Dom, vero?»
Lui fece sì con la testa, due volte.
«Ok.» continuò lei, scavallando le gambe e descrivendo un cerchio talmente ampio e armonioso e lento con la destra da far perdere Dominic in uno svolazzare di lembi d’accappatoio. «Io vado di là e mi metto qualcosa di presentabile, poi ce ne andiamo.»
Si alzò, la donna, e andando verso il bagno cercò di scavalcare Giivs, ma con talmente poca convinzione che finì per tirargli un calcio sulle costole. «Ops.»
Dominic era immobile, fissava ancora il letto vuoto, gli occhi sporgenti, nelle rètine centimetri di pelle, il sorriso gli era tornato sulle labbra sotto forma di paresi.

Quando uscì dal bagno, la donna era avvolta in un tubino nero, sulla testa portava un cappello a tesa larga, morbida, sul naso un paio di occhiali da sole avvolgenti, Dominic ci mise mezzo secondo a scoprirsi follemente innamorato, ma lui dell’amore non sapeva nulla.
«Andiamo.» disse lei.
E andarono.

Giech aspettava. Erano anni che aspettava. Prima in prigione, ora in un vecchio magazzino in disuso. L’unica finestra, sul lato corto dello stanzone, aveva i vetri appositamente oscurati. L’ampia sala era illuminata da luci al neon, intermittenti. Ed era vuota, fatta eccezione per un tavolo da giardino, un paio di sedie pieghevoli e delle scatolette di cibo ammassate contro un muro, chissà da quando. Sul muro, degli sfregi. Sul tavolino, un cellulare e una pistola. Su una delle sedie, Giech, in attesa.
Il telefonino squillò e la Macarena si diffuse in tutto lo stanzone.
«State arrivando, Dominic? Perché ci mettete tanto?»
«Ecco… veramente, zio, c’è una cosa che dovrei dirti.»

«Ok, Dom. Non mi incazzerò, sei mio nipote, però adesso giri quella fottuta macchina e me la porti qui. Subito!»
«Zio, non capisci. Noi ce ne stiamo andando. Lei adesso sta con me.»
«Sei un coglione, Dominic.»
«Probabilmente hai ragione, zio, ma dovresti vederla… »
«È proprio quello che vorrei, testa di cazzo! Portamela qui. Portamela qui!»

Dominic interruppe la chiamata e lanciò il telefonino sui sedili posteriori della macchina.
«Lo zio ti saluta.» disse alla donna, seduta di fianco a lui e indaffarata a rigirarsi qualcosa tra le dita, tanto che sembrò non sentirlo.
«Secondo me» disse lei dopo un po’, guardando quello che teneva in mano, «sono un incisivo e un premolare, te che ne pensi?»
Dicendo così, la donna allungò la mano sotto il viso di Dominic, che osservò per un attimo i due denti e poi alzò lo sguardo su di lei, le sopracciglia asimmetriche dallo sconcerto. La sensazione era sempre quella d’aver fatto una cazzata, ma stavolta la voglia di ridere stava a zero.

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