03. Piccoli affari di famiglia.

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Giech non l’aveva mai vista di buon occhio, la fretta. E con gli anni aveva messo su anche un certo gusto per la teatralità. Gomiti poggiati sul tavolo, busto inclinato in avanti e mani a sorreggere la testa, il vecchio fissava negli occhi il nipote, in silenzio. Lo fissava da quando aveva spento la sigaretta, qualcosa come quindici minuti prima, grattandosi lentamente la barba vecchia di un paio di giorni. Al ragazzo, ormai, sembrava potesse esistere solo quel rumore, dita ruvide su pelle ruvida.

Così per un quarto d’ora.

Poi, dal nulla, Giech sbattè la mano sul tavolo di metallo – forte – e in un unico gesto, di una fluidità quasi poetica, poggiò indice e medio sul pezzo di carta piegato che aveva tirato fuori dalla tasca e lo spinse fin sotto gli occhi del nipote, Dominic. Era evidente che dovesse dirgli qualcosa, ma Giech non parlò subito, fece una pausa, una pausa di quelle che durano esattamente quanto devono durare. Così,                 . Poi parlò.

«C’è una cosa che devi fare per me, Dominic.»

Non era una richiesta, quella. Il suo tono non aveva nulla della domanda. Era un’affermazione, un dato di fatto. Un qualcosa che era già in essere.

«Devi trovare una persona. E l’unico modo che hai per farlo è chiedere a un’altra persona dove sia la prima persona. Quando lo scopri, e solo quando ne sei certo, torni qui e mi dici dove la posso trovare. Su questo foglio c’è scritto il nome della donna dalla quale devi andare.»

Parlando, Giech non aveva mai sollevato le dita dal pezzetto di carta. Una volta finito lo spostò ancora più in avanti, con un gesto preciso. Il ragazzo, stordito dalla scena e dall’interpretazione dello zio, fece per prenderlo, ma le dita del vecchio premevano ancora forte sulla carta, senza mollare. Evidentemente mancava l’ultima frase.

«Per come la conoscevo io e se tanto mi dà tanto – e solitamente è proprio così che succede – questa dev’essere diventata una vecchia stronza, ti avviso.»

Detto questo, picchiettò due volte con i polpastrelli sul foglietto, sollevò la mano e tornò a poggiarsi contro lo schienale della sedia.

Qualche minuto più tardi, mentre si lasciava alle spalle quel grigio edificio, Dominic si domandava ad ogni passo per quale motivo non avesse semplicemente detto di no a suo zio. Giech, dall’altra parte delle porte a vetri, guardava il nipote allontanarsi, continuando a parlottare tra sé e sé.

«… ero certo di averlo. L’avevo messo esattamente in questa tasca, me lo ricordo. Ricordo anche di averlo sentito sbattere contro la flebo, prima. C’era, l’accendino. Lo so, lo so che c’era. E adesso non c’è più… come ogni dannatissima volta.»

Quando anche la porta con le sbarre fu chiusa e l’orizzonte, per La Solfa, tornò a farsi a strisce, il vecchio gangster si voltò e iniziò ad attraversare l’atrio in direzione della propria camera, la stanza numero 237 della casa di cura del carcere federale.

Seduto in uno dei posti in fondo al pullman, Dominic se ne stava con la testa poggiata al finestrino, la tempia sinistra che faceva piccoli rimbalzi sul vetro ad ogni dissesto della strada. Chiuso nel palmo della mano, una mano stretta a pugno, teneva il biglietto. Aprilo fuori di qui, così gli aveva detto zio Giech. Lui nemmeno ci sarebbe voluto andare, da zio Giech. Quel pezzo di carta avrebbe certamente finito per metterlo nei guai, se lo sentiva. Di quello che sapeva del vecchio, metà delle cose le riteneva quantomeno inverosimili e le altre non gli piacevano. Forse avrebbe potuto tornarsene a casa e far finta di niente, perdere il biglietto da qualche parte e scordarsi della commissione. Forse, facendo così, non sarebbe finito in guai ancora peggiori. Forse.

Quando la corriera fermò al capolinea, il ragazzo scese e fece a piedi i due isolati che lo separavano da casa. Il freddo s’era fatto frizzante e Dominic, desiderando un bavero da poter rialzare, coprì la distanza a passo svelto.

Col foglietto lasciato all’ingresso vicino alle chiavi, distrazione un po’ troppo calcolata, una volta nell’appartamento Dominic si riscaldò la cena. Un paio di birre e un film più tardi, dormiva sul divano, abitudine che col tempo andava consolidandosi.

La mattina dopo, quando si svegliò, il primo pensiero fu per il biglietto, il secondo per il fatto di non essere riuscito a scordarsi dove l’aveva messo.

Sigaretta spenta a penzolare dal labbro inferiore e tazza di caffè tenuta con entrambe le mani, il ragazzo si portò all’ingresso del proprio appartamento, dove per un po’ rimase a guardare il pezzettino di carta, piegato in maniera maniacale, fermo nello stesso identico punto in cui l’aveva lasciato la sera prima.

Finito il caffè, poggiò la tazzina di fianco al biglietto, lo prese e lo aprì.

Lesse il nome. Si accese la sigaretta.

Sapeva dove trovarla, quella donna. In città lo sapevano tutti. In pochi però erano abbastanza scemi da andarla a cercare.

In divenireDove le storie prendono vita. Scoprilo ora