Capitolo 11

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Mi ritrovai per una selva oscura

Sorrisi. Dovevo almeno far finta di essere felice. Tenni i miei occhi incollati ai suoi, nel terrore di perderlo ancora. Se mi concentravo, riuscivo a distinguere i tratti del suo volto. Scoprii che eravamo più vicini di quel che pensavo, ma ehi, chi se ne frega. Eravamo soli in un’isola sperduta, no? Allungai una mano verso di lui e tentai di toccarlo, ma non aveva consistenza. Scossi la testa, afflitta.

- Ma com’è possibile questa situazione? – sussurrai.

Lui aggrottò le sopracciglia, e per un attimo i suoi contorni tremolarono.

- Come? – urlò, ma la sua voce risultò ancora debole, come se qualcuno avesse abbassato il volume col telecomando. – Non ti sento!

Sospirai. Non potevamo restare così per sempre. Cos’era, una specie di punizione? Per il Leone dovevamo passare l’eternità a tentare di avvicinarci, rinchiusi in quelle bolle invisibili? Sperai che si stesse divertendo. Sperai che si stesse divertendo davvero tanto. Sperai che si divertisse anche in caso gli avrei strappato la criniera una ciocca per volta. L’immagine di Capitano improvvisamente si offuscò. Ora non riuscivo più a distinguere il colore dei suoi occhi.

- Grid? Grid! Stai sparendo!

Aggrottai le sopracciglia e mi spremetti le meningi, concentrandomi al massimo. Ma la sua figura diventava sempre più invisibile. Allungai le mani per afferrarlo e tenerlo lì con me, ma era troppo tardi: era scomparso. Il mio respiro accelerò, non perché i miei polmoni fossero in cerca d’aria (che sia mai!) ma per evitare di singhiozzare come una bambina.

- Capitano? – lo chiamai, e mi accorsi che la mia voce tremava.

Nessuna risposta.

Feci un passo avanti e girai su me stessa, guardando in tutte le direzioni. – Capitano!

Sospirai. Era andato. Ancora.

Mi strascicai, stanca di quella situazione, fino al punto in cui avevo lasciato le scarpe. Mi sedetti e le rinfilai. Erano di mia madre, di quando aveva la mia età. Erano un modello vecchio, un po’ sgualcite, ma continuavano ad andare alla grande. Mamma me le regalò quando avevo dieci anni. Un anno prima di andarsene. Ricordo quel giorno come se fosse ieri. La mia famiglia in quel periodo era molto in crisi, ma ad ogni mio compleanno mia madre si obbligava a regalarmi qualcosa. Qualunque cosa. Una volta tornò a casa persino con dei biglietti per fare il giro della città sull’elefante del circo. Ma per quel compleanno, non potevamo permetterci spese inutili. Quel giorno era tornata da casa della nonna con una vecchia scatola grigia polverosa. Ricordo che mi aveva fatto sedere sul divano in salotto e mi aveva poggiato la scatola sulle ginocchia. Io l’avevo aperta e avevo trovato le Converse nere, troppo grandi per una bambina come me. La sinistra aveva un buco sopra il mignolo, mentre la destra era stata rattoppata con un pezzo di stoffa blu all’altezza della caviglia. Avevo aggrottato le sopracciglia, un po’ stupita, ma le avevo sorriso comunque, ringraziandola con un bacio. Le avevo detto “Non dovevi comprarle”, convinta che le avesse prese al mercatino dell’usato. Lei era scoppiata a ridere e mi aveva raccontato che quelle in realtà erano le sue vecchie scarpe, quelle che aveva indossato durante i momenti più belli della sua vita. Le aveva messe quando aveva conosciuto mio padre, quando si erano scambiati il loro primo bacio, quando si era sposata. Perché sì, mia madre, da trasgressiva che era, si era sposata con le Converse sotto la gonna dell’abito da sposa. Adesso penserete che doveva essere proprio disperata per andare al matrimonio con delle scarpe del genere. Beh, vi sbagliate. L’aveva fatto per mio padre, perché ogni volta che indossava dei tacchi iniziava a guardarlo dall’alto in basso, e quel giorno aveva voluto farlo sentire bene. Mi strinsi le ginocchia al petto, persa nei ricordi. Anch’io avrei voluto far sentire bene Capitano. Avevo combattuto per non farlo restare più solo, per non farlo sentire abbandonato, e chi aveva distrutto i miei piani? Un Leone immortale e annoiato. Bene. Anzi, benissimo. Una nuova scarica di adrenalina mi invase. Mia madre aveva fatto di tutto per rendere felice papà. Gli era stata vicina nei momenti di depressione, lo aveva sempre tirato su di morale con la sua ironia candida e la sua voglia di vivere. E sapete una cosa? Magari io ero morta, ma avevo ancora voglia di vivere. E avrei fatto di tutto per rendere felice Capitano. Anche se io non potevo più esserlo, lui doveva. Quanto era rimasto da solo? Duecento? Trecento anni? Mi sollevai in piedi, lanciando uno sguardo di sfida al cielo.

La Scrittrice FantasmaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora