Una tela bianca

28 1 0
                                    


Una stanza non è mai solo una stanza.
Certo, una stanza è sempre fatta di quattro mura e racchiude qualcosa – è il motivo per cui è stata concepita: racchiudere, proteggere. Eppure è composta da muri – e cos'è un muro se non un limite, un impedimento? Costruiamo fortezze che ci proteggano dall'esterno e poi rimaniamo alla finestra ad osservare tutto ciò che di bello e desiderabile c'è fuori dalla nostra fortezza della solitudine.
Parafrasando celebri terzi, le stanze che proteggono si somigliano tutte, ogni stanza è una prigione a modo suo.

Lo Scrittore sollevò il proprio sguardo da quelle parole appena battute a macchina e si passò una mano fra i capelli grigi, portandoli indietro. Di fianco allo strumento del suo affatto modesto impiego campeggiavano un posacenere di ceramica decorato con dubbio gusto ed un bicchiere ancora pieno per metà di un cocktail che annega nel suo colore sgargiante di papaya e mango i poveri resti di due cubetti di ghiaccio; dal bordo di vetro facevano capolino una cannuccia variopinta ed un ombrellino di carta.
Era un uomo non privo di qualità e con una certa propensione per gli alcolici di provenienza e gusto esotici. Recuperò una sigaretta lasciata a rantolare sul bordo del posacenere e aspirò con scarsa soddisfazione.
Strinse la sigaretta fra indice e medio, allontanandola dalle labbra per spegnerla.
Ogni gesto era lento e misurato – quasi a voler evitare uno spreco di energie. In realtà, tutto ciò che tentava di preservare era la propria concentrazione. Non gli era facile ricordare.
Sospirò e chiuse gli occhi.

Altrove.
Due occhi gentili si schiusero nella penombra.
Un piccolo sbuffo di fumo si sollevò in volute sempre più ampie. Lui rimase a guardarlo, affascinato dal disegno che andava allargandosi fino a scomparire. Istintivamente, guardò il posacenere: niente che non avesse già visto, in realtà – il solito cimitero di mozziconi raggrinziti. Sollevò lo sguardo ed incontrò quello di lei. Lei che non era lì, non c'era mai stata. Lei che non aveva nemmeno bisogno di possedere un corpo per essere desiderabile.
Non era nuda, ma sembrava lo fosse. Forse lo era solo per gli occhi dell'uomo che la guardava, occhi che non l'avevano mai conosciuta – ma indagata sempre. Quello era il suo ricordo perfetto e immobile, immerso nella luce debole di un pomeriggio autunnale che colava sulla carta da parati.
Silenzio.

Sentì un nodo alla gola, avvertendo la pesantezza di quell'istante. Avrebbe voluto alzarsi da quella poltrona e stringerla, riconosceva in sé lo slancio ma era incapace di assecondarlo. Come sempre, nella sua vita, era destinato a rimanere una potenza che si rifiuta di tramutarsi in atto. Una tragedia incompiuta che arranca.
Si accarezzò distrattamente la barba folta ma ormai screziata di grigio, cercando con lo sguardo di vagare, di cercare protezione in ciò che c'era fuori, oltre la finestra chiusa. Gli era sempre piaciuto immaginare il cielo oltre quelle tende, trovava una strana consolazione nel potersi beare nell'illusione di potersi inventare qualcosa in cui credere. Lei – che non era lì – lo guardò con un misto di dolcezza e compatimento.
E lui ricordò l'ultima volta in cui l'aveva vista.

Sembrava quasi di poterlo avvertire, il vento crescere di intensità fino a spalancare la finestra; si poteva immaginare lo spazio fuori da quella stanza – senza la città, un mare sconfinato e un abisso diverso da quello a cui era abituato. In lontananza, il suono opaco e triste di una campana. Una tempesta di fiori di mandorlo o di ciliegio, una nevicata bianca e rosata, come migliaia di piccole macchie in un quadro che è l'orizzonte intero. Socchiuse gli occhi. Quegli scarti dell'immaginazione riuscivano a spezzargli il fiato. Sembrava quasi che la sua mente non riuscisse a viaggiare su un binario certo, almeno non quando su quel binario – in quel viaggio – era presente lei. Lei, che riusciva a vedere se non attraverso gli occhi di altri. E avrebbe voluto dirle, ti ho vista attraverso gli occhi di molti, ma non sei mai stata bella come adesso. Gli sarebbe mancata l'occasione, ma non se ne faceva un cruccio. Con le occasioni non era mai andato troppo d'accordo.
La presenza di lei era un invito alla divagazione, il pensiero non riusciva contenere il mistero di quella donna, non riuscivano a saziarsene gli occhi e quando il desiderio diventava eccessivo l'evasione assumeva i tratti di un imperativo. Evadere da tutto: dal contatto, dalla presenza, persino dai propri pensieri, se necessario. Lo esigeva la sopravvivenza, era il tributo da pagare a una bellezza ruvida. Non conoscere né pietà né cuore.

Lo sguardo dello Scrittore si spostò sulla tela. Un altro misero.
Il mistero di un mondo definito, dei limiti imposti dallo spazio e dal nulla all'interno di quello spazio; un nulla che va riempito – come le parole riempiono un foglio. Con la stessa consapevolezza e lo stesso terrore di ciò che potrebbe venire fuori, nel bene o nel male. Immaginare un dialogo che non esiste. Le parole non raccontano i silenzi e i colori non raccontano il bianco di una tela: entrambe le cose servono a spezzare qualcosa, il vuoto che potrebbe racchiudere tutto e che finisce per raccogliere solo ciò che decidiamo di riversare al suo interno. Intrappolato per sempre – per quel che valgono i nostri sempre sussurrati nei tempi e negli spazi sempre sbagliati.
Forse era per questo che alcune persone sentivano il bisogno di creare qualcosa: era il loro modo di distruggere l'infinito, di combattere la paura dell'eternità.
Lei era in quella tela, nascosta. Sarebbe rimasta così perché l'unica immagine che aveva di lei era questa e tutto ciò che gli rimaneva era la possibilità di cullare quell'immagine nel tentativo – forse patetico – di custodirne il calore, una sorta di insano desiderio di fermare il tempo a quell'attimo che precede tutto, quando c'è solo mistero ed eccitazione, dove l'amore e l'erotismo sono confusi e non ha importanza dove finisce uno ed inizia l'altro. Quel momento rappresentava tutto ciò che gli era concesso perché oltre non ci sarebbe stato nulla.

«Avrei voluto conoscerti quando ancora potevo conoscerti.» riuscì a dirle, mentre accarezza una risposta fra i suoi capelli morbidi.
Tutto ciò che ottenne fu sguardo interrogativo.
«Non importa.»
Avrebbe dovuto capirlo allora.

«Perché ti facevo paura?»
«Eri strana. Abbastanza simile da capire, abbastanza dissimile da affascinare.»
La immaginava così, sorridere orgogliosa di quel suo fascino indiscreto.
«Forse era questo a farmi paura: lasciarsi affascinare è quasi sempre una fregatura.»

«Non avevi fretta.»
Lui la guardò, prima di rispondere.
«No, non avevo fretta. Stavo imparando ad aspettare.»
«E ora? Cosa aspetti, ora?»
«Di non avere scelta.»

Neppure allora aveva capito. Forse perché non era così ovvio e quelle parole non erano mai state pronunciate. Le aveva immaginate, come sempre, nel tentativo di nascondersi. Un tentativo fallimentare: non c'è verso di dividersi da sé stessi, né dai propri desideri. Se si è particolarmente fortunati, si può faticosamente imparare a conviverci.
Però, quanta verità in quella frase: avrei voluto conoscerti quando ancora potevo conoscerti. C'era tutto il senso di una sofferenza leggiadra, un peccato per cui si è già ricevuta l'assoluzione. In un altro tempo avrebbe saputo come fare per conoscerla, forse anche per lasciarsi conoscere.

Gli occhi si riaprirono, lucidi e inquieti.
Lo Scrittore sospirò, cercando freneticamente nel pacchetto, seppure mantenendo una compostezza dissonante, quasi fastidiosa, del tutto antitetica al tumulto che provava riconoscendo quel momento come uno dei più importanti che gli fosse capitato di vivere.
Fumare è come vivere, rifletté, mentre accendeva la sigaretta e ne aspirava il primo tiro. Come vivere, sì. Decine, centinaia di sigarette messe in fila, una dopo l'altra. Consumate lentamente o di fretta, a volte senza nemmeno accorgersene, altre volte godendo ogni singolo tiro, finché fumare diventa un'abitudine, fa parte dei giorni e delle notti, diventa un gesto automatico e simbolico che riacquista il suo significato solo in momenti come quello, quando hai davanti a te una meraviglia e il cuore ti batte a mille e lo stomaco sembra voler prendere residenza altrove; ecco, esattamente in quel momento accendi una sigaretta che significa qualcosa. Così funziona la vita, allo stesso modo.
Sorrise, era una metafora stupida.
Si alzò e a passo lento uscì dalla stanza reggendo in mano il suo drink. Raggiunse la porta e prima ancora d'aprirla venne inondato dagli odori di un mondo che c'era, esisteva, e che lui aveva cercato di nascondere perché era così pieno di vita da riuscire a terrorizzarlo.
Fece due passi e respirò quel vento che aveva l'odore di mille primavere – lo stesso odore che aveva immaginato fra quei capelli.
Sentì una voce – la sua voce – chiamarlo.
«Non capisco perché ti ostini a farti tutto questo» disse lei.
«Lo sai molto bene» rispose lo Scrittore, prendendo una generosa sorsata del suo sipido veleno.
«In fondo si beve per non dimenticare.»

I mercoledì del mostroWhere stories live. Discover now