Quel giorno, il signor N. uscì di casa dopo aver compiuto tutte le azioni che vengono normalmente richieste ad un essere umano adulto e coscienzioso. Pulito e profumato dopo le consuete abluzioni, aveva indossato un completo grigio abbinato ad una stravagante cravatta dorata che gli metteva allegria e, sistematosi sul volto il più rassicurante dei sorrisi, era sceso in strada e chiuso dietro di sé la porta di casa.
Con il passo sicuro e flemmatico di chi sa dove sta andando e non ha particolare fretta di arrivare, il signor N. si disponeva ad osservare la sua città immersa nella nebbia mattutina, uno spettacolo che lo aveva affascinato sin dalla più tenera età. Ricordava di aver chiesto a suo padre cosa ci fosse mai dentro la nebbia.
«Nulla che ti piacerebbe scoprire» era stata l'asciutta risposta.
Suo padre era stato un uomo duro e avaro tanto di denaro quanto di dimostrazioni d'affetto, eppure in assoluta coscienza il signor N. non avrebbe proprio potuto dire d'aver avuto un'infanzia infelice o che gli fosse mancato qualcosa d'essenziale. Anzi, si era sempre ritenuto particolarmente fortunato da quel punto di vista.
Mentre procedeva nel suo cammino, il signor N. si prodigava in continui cenni del capo per rispondere a questo o a quel saluto: essendo uno degli uomini più ricchi e potenti della città, trovava del tutto naturale che tutti – anche quelli di cui non ricordava il nome o che non aveva mai visto prima – si congratulassero con lui per qualche ragione, anche per il solo fatto di essere venuto al mondo.
Da bravo abitudinario, percorreva sempre la stessa strada per andare dalla sua lussuosa abitazione fino all'ufficio e posto di lavoro abituale. Svoltò quindi a sinistra, prendendo una stradina secondaria – eletta a percorso privilegiato per il solo fatto che lo assolveva dal compito di passare davanti al lussuoso esercizio commerciale della sua seconda ex-moglie.
A quell'ora del mattino la viuzza era deserta, trecento metri di piacevole e rettilinea solitudine avvolto solo dalla nebbia. Si fermò, come faceva ogni mattina, tirò fuori una sigaretta e l'accese.
Si rimise in cammino, aspirando compiaciuto la propria condanna a morte, accompagnato solo dal rintocco secco dei suoi passi sul basolato. Un passo. Poi due. Al terzo, si voltò. Gli era parso di sentire qualcosa. Non vide nulla e cercò di tranquillizzarsi. Riprese a camminare e lo sentì di nuovo: era come se la strada rimandasse l'eco dei suoi passi. O, per voler essere completamente sinceri, come se qualcuno lo stesse seguendo.
Si voltò ancora e vide qualcosa: una massa scura, grumosa e imponente di cui riusciva a stento a scorgere i contorni, immersa nella nebbia. Nebbia che, per qualche ragione, parve aumentare d'intensità e di livello, risalire lungo il suo bell'abito come se volesse annegarlo. Da quell'orrore privo di forma, il signor N. sentì arrivare prima un gemito, poi un gorgoglio sommesso. Divorato dall'angoscia e preda di un terrore che in seguito non avrebbe saputo spiegare, gettò la sigaretta e prese a correre come solo può farlo chi tema per la propria incolumità.
Arrivato al termine della stradina solitaria voltò a sinistra per raggiungere la strada principale, nella speranza di trovare qualcuno a cui chiedere soccorso ma, una volta girato l'angolo, trovò davanti a sé la più totale desolazione. Non un'anima intorno. Le luminarie natalizie erano spente, i negozi chiusi e le vetrine impolverate. La strada non mostrava segni di vita. Ancora con il cuore in gola, il signor N. valutò l'opportunità di tornarsene a casa, ma il ricordo della massa scura e gorgogliante alle sue spalle lo ricondusse a più miti consigli: sarebbe andato in ufficio. Era anche il luogo più sicuro e vicino che gli venisse in mente.
Accelerò il passo, dirigendosi verso il ponte. La nebbia, notò con un certo sollievo, si era diradata tornando ad un livello normale e alle sue spalle non sentiva più lo scalpiccio di passi che l'aveva messo in allarme, né alcun vomitevole gorgoglio. Non ebbe però il cuore di voltarsi a controllare se la massa scura ed informe lo seguisse ancora.
Raggiunse il ponte a passo svelto, la fronte imperlata di sudore. Vide, immerse nella nebbia, delle figure che stavano effettivamente attraversandolo nella sua medesima direzione. Sollevò il capo e vide una colonna di fumo sollevarsi in lontananza, subito seguite da molte altre.
Una figura mingherlina gli venne incontro nella nebbia.
«Buongiorno, signor N.» disse lo sconosciuto, prima che lui potesse riconoscerne le fattezze.
«Buongiorno...» tentò di rispondere, ma si fermò quando vide di fronte a sé, ancora proteso in un ossequioso inchino, uno scarafaggio di proporzioni umane vestito anche con un certo gusto e indubbiamente in possesso di buone maniere.
«Non si ricorda di me?» domandò lo scarafaggio, quasi irritato dall'altrui reticenza. «Sono Gregor!»
Non riuscì a dare ulteriori spiegazioni: il suo interlocutore era già fuggito, terrorizzato da ciò che aveva visto.
Terminato il ponte, il signor N. si fermò a riprendere fiato. Non era affatto abituato a quelle prodezze ginniche.
Intorno a sé, vedeva sollevarsi colonne di fumo in ogni dove ed il cielo solitamente grigio e cupo era rischiarato in lontananza dal sollevarsi di fiamme. Sembrava che in tutta la città fossero scoppiati incendi, ma questa era l'ultima delle sue preoccupazioni. Doveva raggiungere l'ufficio, il più in fretta possibile.
Un nuovo gorgogliare alle sue spalle rischiò di fargli esplodere il cuore in petto.
Si voltò, solo per scoprire che la massa scura che lo stava perseguitando sembrava essere un uomo, orrendamente deturpato da una qualche malattia. Si agitava e muoveva le labbra, traendone versi incomprensibili, come stesse sforzandosi di parlare senza tuttavia ricordare il modo di farlo.
Il signor N. fuggì, di nuovo. Raggiunse la piazza dell'orologio al giungere dell'ottavo rintocco. Ciò che vide lo lasciò senza parole. In tutta la piazza erano allestiti dei roghi che bruciavano alti e intorno ad essi erano raccolti in circolo uomini incappucciati e coperti da tuniche nere, ognuno con un fagotto di stoffa tra le mani. Da quei fagotti provenivano vagiti e pianti disperati. A turno, gli uomini gettavano il loro infante nel rogo, quindi si toglievano il cappuccio ed intonavano un canto monocorde.
Tra un falò e l'altro, procedevano colonne ordinate di incubi incarnati, orribili e deformi, guidati da demonietti incartapecoriti.
Paralizzato dall'orrore per ciò che stava avvenendo il signor N. rimase lì, ai bordi della piazza, lasciando che i suoi occhi si riempissero di orrore.
Fu solo il sentire qualcosa di pesante poggiarsi sulla sua spalla che lo scosse.
Si voltò, il volto contratto dalla paura ed il colorito terreo di chi crede d'aver visto un fantasma.
L'ombra scura e gorgogliante, l'uomo deforme, lo aveva raggiunto e lo fissava. Aveva degli occhi azzurri e tristi. Degli occhi molto simili ai suoi.
In qualche modo, gli riusciva familiare.
Il signor N. fece di nuovo per fuggire, ma l'uomo parlò.
«Njonjo...» riuscì a dire, e la sua voce era tremula e sofferente.
Il signor N. riconobbe il modo in cui era solito chiamarlo il suo (poco) affezionato genitore.
«Padre...?» domandò, incredulo – e ne aveva ben donde, essendo suo padre deceduto da almeno un paio di lustri. Tuttavia, non era quella la cosa più incredibile che gli fosse capitato di vedere negli ultimi minuti.
«Ricorda...» disse ancora l'uomo.
«Cosa? Cosa devo ricordare?»
La figura del padre cominciò a sfaldarsi, come se stesse perdendo consistenza.
«Nebbia... Ricorda...» riuscì a rantolare, prima di sparire del tutto.
E quando fu sparito, come per miracolo, il signor N. ricordò.
Ricordò quando aveva solo sei anni e aveva visto sua madre sparire nella nebbia per non fare più ritorno. L'avrebbero ritrovata solo alcuni giorni dopo che galleggiava nel fiume. Ovviamente morta.
Ricordò quando, dieci prima, per tenere in ordine i conti di una delle sue aziende, aveva licenziato una decina di operai, gettandoli letteralmente sul lastrico. Uno di loro era impazzito per la disperazione e aveva sterminato la propria famiglia, prima di gettarsi dal ponte. Si chiamava Otto Weigl.
Infine, ricordò quel giorno di tanti anni prima quando, ancora bambino, aveva chiesto al padre cose ci fosse nella nebbia.
«Nulla che ti piacerebbe scoprire» aveva detto il padre, per poi aggiungere:
«Tutto quello che hai dentro di te è anche nella nebbia, Njonjo. Per questo è così pericoloso perdersi e così difficile venirne fuori».
Ricordò tutto questo. E vide che non c'era più la nebbia. E cadde in ginocchio, disperato.
Vide che stava nevicando. Aprì la mano per raccogliere un fiocco di neve, ma ne restò deluso: non era neve.
Era cenere.La luce al neon sfarfallò, gettando ombre inquietanti sui volti dei due operai in pausa.
Uno dei due, il più alto, si accese una sigaretta.
«Hans, hai sentito?»
Hans si voltò annuendo, ma non disse nulla.
«Il signor N. è finito in manicomio. Continua a parlare di roghi di bambini e di mostri nella nebbia» proseguì l'operaio, intervallando le sue parole con anelli di fumo che gli uscivano dalla bocca.
Di nuovo, Hans non rispose.
«Certo che ce ne è voluto, di impegno. E anche di denaro» concluse il collega. Gettò a terra la sigaretta e si avvicinò alla finestra. Da lì, riusciva a vederla. La fabbrica bruciava ininterrottamente da tre giorni.
«Non credevo ci avrebbe messo tanto» commentò.
«Ci vuole sempre del tempo per correggere gli errori, Mikael».
I due si guardarono. Si sorrisero, complici.
«Morte ai padroni» disse Mikael.
«Morte ai padroni» rispose Hans Weigl.
Tutto era coperto di cenere.
Ed era bellissimo.
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I mercoledì del mostro
Historia CortaRaccolta di racconti. Un nuovo racconto ogni mercoledì (salvo cataclismi).