𝐈𝐕

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| 𝗟𝗔 𝗣𝗢𝗭𝗭𝗔𝗡𝗚𝗛𝗘𝗥𝗔 𝗗𝗜 𝗡𝗘𝗪 𝗬𝗢𝗥𝗞 |

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| 𝗟𝗔 𝗣𝗢𝗭𝗭𝗔𝗡𝗚𝗛𝗘𝗥𝗔 𝗗𝗜 𝗡𝗘𝗪 𝗬𝗢𝗥𝗞 |















𝙌𝙪𝙖𝙣𝙙'𝙚𝙧𝙤 𝙥𝙞𝙘𝙘𝙤𝙡𝙤 𝙞 𝙢𝙞𝙚𝙞 𝙜𝙚𝙣𝙞𝙩𝙤𝙧𝙞 𝙝𝙖𝙣𝙣𝙤 𝙘𝙖𝙢𝙗𝙞𝙖𝙩𝙤 𝙘𝙖𝙨𝙖 𝙪𝙣𝙖 𝙙𝙚𝙘𝙞𝙣𝙖 𝙙𝙞 𝙫𝙤𝙡𝙩𝙚. 𝙈𝙖 𝙞𝙤 𝙨𝙤𝙣𝙤 𝙨𝙚𝙢𝙥𝙧𝙚 𝙧𝙞𝙪𝙨𝙘𝙞𝙩𝙤 𝙖 𝙩𝙧𝙤𝙫𝙖𝙧𝙡𝙞.















"Perché dici che non hai ancora vissuto la tua vita?" Chiede Selene, ricordandosi un suo vecchio pensiero. Glielo raccontò tempo addietro, durante la loro prima uscita. Timothée non aveva vissuto niente, aveva solo trascorso le ore della sua vita aspettando, contemplando il nulla cosmico.

"Perché respirare, camminare, parlare senza amarsi non è vivere." Risponde lui, buttando via una verità disarmante. Se fosse davvero così facile affermarlo e accettarlo rendendebbe la vita molto più facile e, soprattutto, molte persone risparmierebbero soldi spesi a sfogarsi con i terapisti, pensa Selene.

"Non ti ami?" Domanda, incantata.

"No, non lo facevo." Vorrebbe risponde: 'No, non lo faccio.' ma mentirebbe e le bugie logorano l'anima e il buon senso che i suoi occhi emanano. Mentire non ha mai giovato a Timothée, mai quanto la verità.

"Sei così profondo." Afferma lei ammaliata dalle sue parole. Non riesce a capacitarsi. È fin troppo invidiosa. Vorrebbe esser anche lei capace di fabbricare pensieri con le parole, vorrebbe anche lei raccontarsi senza risultare banale, superficiale. Vorrebbe anche lei esser lui.

Timothée se ne accorge. Nota qualcosa di strano, di poco convincente nei suoi occhi e sono proprio quest'ultimi a chiedere cosa c'è che non va.

"Chiedimi tutto." Afferma affranta. Si prostra ai suoi piedi. Cade dal divano e si inchina davanti a lui. Desidera parlare, desidera raccontarsi. Desidera parlare con il suo sconosciuto. "Ti prego." Supplica sotto voce.

"Raccontami qualcosa di profondo." Sembra esaudire la sua proposta questa domanda. Ritorna al suo posto, ma con una postura rigida, fredda. Quasi non sembra Selene.

"Ero a New York senza un preciso motivo. Non penso sia mai stato un bel periodo quello. Non è neanche molto lontano da oggi e neanche troppo vicino." Inizia, strofinando le mani sul tessuto del divano.

"Comunque c'erano tanti esemplari di esseri umani in quella strada in cui mi trovavo. Vedevo modelle, uomini d'affari, cinesi, donne incinte e senza tetto. Tutto questo lo vedevo seduta sul marciapiede - non chiedermi il motivo, mi ricordo soltanto questo primo particolare - vicino alle strisce pedonali di una strada affollata. Mi alzai e camminai per quella strada, non avevo altre possibilità. Mi giravo come a dover guardare chi mi seguisse, ripeto: non stavo molto bene in quel periodo. Accanto a me c'erano tutte quelle persone, tutti quegli uomini impegnati che correvano a destra e a sinistra, uomini con i loro dispositivi tra le mani, bambini con i loro giocattoli come scudi e tutto il caos che solo New York crea. Aspettavo qualcuno e nel frattempo mi sistemavo i capelli biondi e corti che avevo. Erano tutti scombinati, gli alberi verdi erano più calmi in confronto a loro e io non facevo altro che spazientirmi per quella persona, che non venne mai." Sembra non fermarsi più. La sua lingua corre veloce, la saliva si riproduce senza la necessità di acqua, le sue mani toccano i capelli con troppa frequenza, le sue gambe si agitano e sbattono contro il pavimento con troppa insistenza e ricreando troppo rumore, le sue labbra vengono torturate durante le pause tra un respiro e l'altro, il suo cuore perde battiti nel raccontare un giorno come questo.

"Improvvisamente si mise a piovere e io dalla rabbia, dalla delusione appena ricevuta, dalla catastrofe che stava diventando la mia vita, iniziai a sbattere i piedi nelle pozzanghere, alzavo l'acqua con i miei stivali, con le mani nella mia giacca di pelle - stavo morendo di freddo -." Timothée non sta capendo perché le sta raccontando proprio questo. Capisce, però, quanto siano profonde le sue descrizioni, la sua concezione di se.

"Neanche mi accorsi di quanto strana sembravo dall'esterno, di quanta rabbia mettevo nell'ammazzare quell'acqua piovana e, appena mi resi conto degli sguardi straniti delle persone, iniziai a ballare sotto la pioggia. Facevo mosse molto stupide, camminavo allungando di molto le braccia, quasi si vedevano prima quelle del sorriso che avevo sul volto. Mi sentivo felice, fradicia, ma felice.
I capelli biondi e bagnati mi ricadevano sul viso così anche il trucco era sbavato e poco era rimasto negli occhi, proprio come adesso. Ero nella merda, non sapevo cosa fare, non sapevo dove andare e tutto quello che riuscì a fare, fu mettermi le mani tra i capelli e ridere come una pazza." Il sorriso del giovane interrompe il suo monologo.

"Perché eri triste?" Chiede, ritornando serio.

"Perché non accettavo tutte le piccole cose che prima facevano parte della mia quotidianità e poi, repentinamente, non c'erano più. La mia famiglia, la mia stabilità mentale, i miei studi, il mio ex ragazzo, la mia ex ragazza traditrice, le storie insignificanti da che facevano costantemente parte della mia vita a che, con un semplice battito di ciglia, non c'erano più. Puoi considerami viziata, ingrata, bambina, ma io avevo bisogno di tutte quelle piccole cose. Io ho ancora bisogno di tutte quelle piccole cose." Un altro sorriso nasce dalle labbra di Timothée. Questa volta è un sorriso compassionevole. Non c'è molta felicità in esso, solo rassegnazione alla verità che le sue parole dicono. Allunga una mano verso di lei e la esorta a continuare.

"Piansi un po', devo essere sincera. Era un pianto rabbioso, rancoroso e poi decisi di prendere la metro. Lì mi guardavano tutti, guardavano il mio viso stravolto, i miei occhi ancora più blu e rossi per via dei pianti. Continuava a fare un freddo boia, però. Mettere quella cazzo di giacca di pelle era stata l'idea più stupida che potessi mai prendere. Dicembre a New York con una fottuttissima giacca di pelle! Che cazzo mi era passato per la testa!" Si sfoga.

"Sono arrivata dalla parte opposta della città. Tutti i negozi più strani erano in quella via. Macchine che sfrecciavano da un senso all'altro, da una corsia all'altra. Sembravano tutti pazzi. Mi comprai un giubbotto caldo, un bel caffè in un bar e rimasi seduta fuori in una delle sedie. Giocherellavo con i miei capelli, le mie dita volteggiavano in quelle ciocche bionde, avevo metà di queste che coprivano la mia faccia. Finì il mio caffè dopo nemmeno tre minuti e ripresi - questa volta accaldata - a camminare. Mi giravo ancora attorno per vedere quale mostro doveva perseguitarmi, quale fantasma del passato doveva importunarmi e tutto questo perché non accettavo il divorzio della mia famiglia." Conclude con un sorso di quel vino e finisce anche la bottiglia. Si guardano ancora un po'.
Il silenzio - quel fastidioso silenzio - regna e Timothée non può farci niente.

"Chi era la persona che dovevi incontrare?"

"Mio padre." Il silenzio, nuovamente. Non c'erano altre parole da aggiungere. Non c'erano pensieri da raccontare, né nessuna storia da esplicitare.
C'era solo ribrezzo verso una figura ripugnate, verso un essere che ha distrutto in mille pezzi il cuore infantile di una bambina che aspettava - in un corpo da adulto - sul marciapiede freddo di New York.









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Eccomiiiii
Forse questo è il mio capitolo preferito fin ad ora. Questo racconto di Selene è così introspettivo e malinconico che mi ha trasportato nel suo mondo fin da subito.
Spero vi sia piaciuto e fatemi sapere cosa ne pensate.

𝐌𝐀𝐋𝐀𝐍𝐎𝐓𝐓𝐄  | l. seydouxDove le storie prendono vita. Scoprilo ora