1. L'inizio della fine

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Ah, il ritorno a scuola dopo le vacanze.

Il dolce suono della campanella, le armoniose imprecazioni dei ritardatari, il tanfo di fumo nei bagni delle ragazze. Avrei preferito nutrire un cucciolo di coccodrillo con la mia carne piuttosto che mettere di nuovo piede al liceo. Mia madre mi diceva sempre che per sopravvivere è necessario trovare il lato positivo di ogni situazione. Molto poetico, certo, ma chiaramente non applicabile ad ogni situazione.

L'estate tra la quarta e la quinta superiore non era stata tra le migliori. Alice, l'unica ragazza al mondo a essere punita dai propri genitori anche senza essere rimandata o bocciata. Per mio padre, docente di matematica all'Università di Bologna, era impensabile che la sua secondogenita fosse una schiappa totale nelle materie scientifiche. Aver superato l'anno con un sei in fisica per me era una conquista, per lui un affronto alla sua intelligenza. A quanto pare non era abbastanza per lui avere già un figlio con una malsana ossessione per l'informatica e i numeri. Dopo una ramanzina lunga quanto l'Esodo e l'innalzamento del muro del silenzio, mio padre aveva deciso che la punizione perfetta sarebbe stata quella di assistere ad ogni singolo esame dei suoi studenti fino a fine luglio.

Forse credeva che questo potesse infondere in me una rinnovata passione per la matematica e la fisica. La realtà è che mi aveva solo fatto odiare ancora di più me stessa per aver scelto, cinque anni prima, il liceo scientifico.

Mi avviai verso l'aula che negli ultimi anni aveva fatto da scudo alle mie lacrime e alle mie risate, la Quinta C. Scala B, secondo piano, in fondo al corridoio. La campanella era in procinto di suonare e le mie gambe si facevano sempre più pesanti, implorandomi quasi di fare dietrofront e fuggire il più lontano possibile. Sorpassai una coppia di ragazzi di seconda, intenti a perlustrarsi la bocca a vicenda con la lingua, e mi domandai se fosse merito mio e della Freccia di Cupido. Per un istante bastò questo a farmi dimenticare le cinque interminabili ore che mi aspettavano.

La Quinta C era in fermento. Le gemelle Lara e Luana, sedute in primo banco, si sistemavano il rossetto pastello sulle labbra sottili; il gruppetto dei ragazzi formato da Christian, Matteo e Paolo, rideva sguaiatamente per una delle battute a sfondo sessuale dell'arsenale di Chris; Olga invece leggeva un libro, appollaiata sulla sua sedia e con la testa incavata tra le spalle.

Mi accomodai al mio solito posto, il banco in ultima fila vicino alla finestra. Era un bene che i professori lasciassero scegliere a noi la disposizione dei posti a sedere. Non avrei mai potuto arrivare a fine giornata sana di mente se non avessi avuto la possibilità di fuggire con la mente altrove, osservando il giardino della scuola stagliarsi sotto di me. Con il passare degli anni avevo imparato a guardare fuori senza essere rimproverata dai professori, e quello era diventato uno dei miei passatempi preferiti. In terza superiore avevo persino beccato la professoressa di inglese e il professore di educazione fisica a scambiarsi effusioni da voltastomaco contro il vecchio acero riccio. Quella si che fu una scoperta indimenticabile.

«Hey», mi salutò Edoardo, sbattendo lo zaino sul banco con un tonfo. «Passato una buona estate?»

«Più o meno. E tu?»

Lui rispose con un'alzata di spalle.

Edoardo Berti era il mio compagno di banco dal primo giorno di prima superiore. Fu uno scherzo del destino, in realtà: quella mattina eravamo entrambi in ritardo, e quando arrivammo in classe tutte le sedie erano già state occupate. Pensai che fosse una bella fortuna essere finita vicino a un ragazzo del genere. Riccioli color ebano, occhi verdi dal taglio leggermente a mandorla, una spruzzatina di lentiggini sul naso. Avrebbe potuto andare peggio, no?

Peccato che Edoardo e la socialità fossero due rette parallele destinate a incontrarsi nell'anno del mai. Forse era parte del suo essere un tipo così misteriosamente affascinante, o forse non gli fregava semplicemente un cazzo di avere a che fare con i suoi compagni di classe. Fatto sta che riuscire a cavargli più di cinque parole di bocca era un'impresa degna dei libri di storia.

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