Strano, quello. Non faceva quasi più male.
Se l'avesse immaginata, prima di quel momento, quell'ora – era un'ora, un'ora soltanto? O la notte se l'era divorate tutte, le ore, a una a una, e non gli aveva lasciato altro che la sensazione d'aver perduto il tempo? – certo non avrebbe dimenticato di menzionarlo, il dolore, prima d'ogni altra cosa. Prima della paura, del senso d'impotenza, prima perfino del sapore del sangue che gli scivolava giù per l'esofago; prima di tutto. Ma faticava, in quell'istante, a capire se il dolore fosse svanito così improvviso come gli era stato imposto, o se il corpo avesse smesso di percepirlo, per proteggersi, per rendere più dolce quel momento.
Il peggio era passato. Glielo diceva, il suo corpo, che pareva aver smesso di pulsare, abbandonato contro l'acciottolato stanco del vicolo, raggomitolato in quella che doveva essere una posa del tutto innaturale. Non ne aveva la percezione, dello spazio, del suo corpo, del tempo. Alle nove, al Vicolo de' Birri, aveva detto l'Albert, e il suono del campanile del Duomo doveva essergli sfuggito, come tutto il resto.
Ci doveva essere la luna, in cielo, da qualche parte. Se fosse riuscito a muovere la testa, se avesse potuto aprire gli occhi, forse, l'avrebbe potuta vedere. Ammesso che avesse avuto senso, quella ricerca di un ultimo istante, quella luce pallida che avrebbe illuminato a malapena più delle lampade pubbliche le ombre violacee degli androni nel vicolo. E dire che non c'era che una manciata di metri, a separarlo dalla piazza, e lì qualcuno si sarebbe fermato, sì, a vederlo a terra. Ci tocca stare nell'ombra, a noialtri, diceva l'Albert. Negli stradelli, ché in piazza non si può, noi. E lì era finito, in uno stradello, a sputar sangue senza nemmeno riuscire a chiamare aiuto. Gli morivano in gola, le parole, le inghiottiva insieme a saliva e sangue, e la sola idea gli faceva venire da tossire, e quello faceva male, quello faceva male sul serio.
Non poteva essere passato molto tempo, non poteva. Era d'una manciata di minuti in anticipo – il tempo di tirarsi dietro la bicicletta per non lasciarla incustodita davanti al Duomo – e l'Albert non era tipo da far tardi, lui, con quella precisione tutta austriaca. Se il suo respiro avesse avuto appena un po' d'affanno in meno, se gli fosse venuto facile ascoltare, allora li avrebbe intesi, come ogni volta, i suoi passi piccoli e affrettati. Avrebbe capito, lui, l'Albert, come capiva sempre. Le avrebbe tirate lui, due grida, tanto da far scendere qualcuno in strada, tanto da chiamare aiuto. Minuti, non ore. Minuti, dilatati all'estremo, scanditi dal sangue che si rapprendeva e gli faceva tirare la pelle del viso. Siamo tali e quali, tutti, sotto la pelle, diceva l'Albert, mica Iddio ci fa con due stampi diversi. La pelle, il sangue, forse, non il resto – il sudicio dell'animo, la guida cieca e muta delle azioni, dei sentimenti. Non ne era mica del tutto convinto, lui.
Aveva l'odore del selciato sul viso, ne respirava a tratti la polvere, ne sentiva tutte le asperità, logorate dagli anni, dietro la nuca, fin su una guancia. Sapeva di umido, di metallico, quel sentore della città, che tanto gli pareva strano quando se lo sentiva arrivare al viso. Pioggia. Forse sarebbe venuto a piovere. Non era freddo, del resto, per quanto fosse autunno, e il sole fosse calato da tanto – o magari aveva smesso di sentirlo, anche il freddo, come il dolore. Questo ottobre si porta il cambiamento, noialtri, si buttano a gambe all'aria, i signori, diceva l'Albert, la voce gonfia di frenesia, uno sguardo acceso e folle che non gli vedeva da quando era sceso dalla tradotta da Venezia, dopo la guerra, quando era partito da traditore e rientrato da vincitore.
Da qui viene il nuovo, diceva. Siamo noialtri il nuovo dell'Italia, noi che ci ha istruiti il Kaiser. E s'era fatto amico uno di quei balordi delle squadracce, uno di quelli che era andato a Bolzano a far la marcia, a mandare a casa Perathoner, che pure pareva l'avessero voluto un po' tutti. Ma c'era il nuovo, adesso, un nuovo vestito di nero che guardava dall'alto, e forse l'Albert si era convinto che li avrebbe visti con altri occhi, loro, che l'andar controcorrente diventasse normale e smettesse d'essere busòn. Ma aveva quello spirito appassionato, l'Albert, tale da non poterlo mettere a freno; e neanche aveva osato farlo, lui. S'era fatto di lato, com'era giusto che fosse, senza sparare troppo facili giudizi e senza mettersi di mezzo.
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Storie di un Paese Perbene
Ficção HistóricaItalia. Ventennio fascista. Si dicevano così tante cose, sull'Italia e sugli italiani. Motti, slogan, frasi che sono diventate talmente celebri da rappresentarci ancora nel mondo. Eravamo un paese di brava gente. Un paese perbene. O forse, nella vit...