uno: angelo in esilio

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ᴄʜɪᴇᴅᴏ ꜱᴄᴜꜱᴀ ᴅɪ ᴇꜱꜱᴇʀᴇ ɴᴀᴛᴏ❞

nei media — bye [mia smith]

How strange we are before we die

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How strange we are before we die...
–ɴᴀᴋᴀʜᴀʀᴀ ᴄʜᴜᴜʏᴀ


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Dazai sta morendo, o almeno pensa di farlo. Se ne sta lì, nell'ombra allungata del bar, la sua faccia spunta senza preavviso sul fondo del bicchiere di whiskey, stravolta dalla miseria e dalla voglia di distruggersi, di distruggere quel misero organismo larvale che brulica sotto i vestiti. Le sue ossa si sciolgono al silenzioso tocco dell'alcol. Dazai sta morendo, eppure ha vent'anni. Eppure c'è stato amore, da qualche parte, e l'ha perduto, l'ha perduto tutto nei fondi dei bicchieri e nei vicoli inodori, nelle braccia bianche di quel ragazzo che viveva di sogni raccattati per le strade, di bellezza spezzata e brandelli di carne. Quel ragazzo che si portava addosso il peso di tutte le tristezze del mondo. Anche lui è morto, da qualche parte, ucciso dallo stesso dolore che l'ha partorito. Eppure c'è stato amore. Eppure, a vent'anni, di Dazai resta solo la mostruosità del suo sorriso storto e una costante, opprimente, necessità di costruire maschere.
Continua a sorridere, anche quando ritorna nella sua camera d'albergo con le pareti gialle e un alone di muffa sul soffitto. Sul comodino ci sono scatole di medicinali, tre bottiglie vuote rovesciate sul materasso, un mosaico di notti insonni e anestetiche consumate negli improvvisi bisogni di calore umano. In quel posto dove regna il buio assoluto, la sua carne diventa trasparente e lui un fantasma. E come tutti i fantasmi, Dazai vuole solo avere un corpo.

Yokohama lo accoglie nella ripetitività delle sue notti. Fuori, qualcuno gioca a palla con la testa di un morto, e non si sente più il vento, anche se fa freddo.

Dovrebbe dormire, ma non ci riesce. Ricorda, del suo ultimo sonno, un letto rotto e due corpi disfatti, e poi il tocco freddo di dita fantasma, una macchia di sangue sul cuscino, e un profondissimo, assoluto senso di solitudine. Dormivano sempre con le tende tirate, cosicché facesse buio fino all'ultimo attimo del loro risveglio. Così aprendo gli occhi non si vedeva il pavimento sempre sporco e i fiori marci e decomposti sciolti nei vasi. Adesso quella camera è lontana; non esiste più. Anche i ricordi sono diventati distanti, sembrano quasi ricoperti di polvere. È tutto vago, irreale, inviolabile, irraggiungibile... Dazai vorrebbe scrivere, ma anche quello, ormai, si è consumato. Permane un senso di nausea, sulla bocca dello stomaco, che lo porta a vomitare tutto ciò che ingoia, anche l'affetto degli estranei, anche l'acqua, anche l'aria. Si sente sconnesso. Una membrana si è recisa e Dazai è rimasto attaccato all'interno, insieme a lui. Guarda gli altri come fossero fantasmi e loro anche rimangono distanti, avvertono il rancido e respingono il disgustoso contatto con l'uomo suicida, accovacciato su ossa vecchie, pallido e ubriaco, come un insetto agonizzante che non sa più dove andare.
Se ne sta lì fermo, tra l'immensa immobilità del cielo e il ronzio delle mosche. Non ama questa città, ma nemmeno la odia. Gli arde nella bocca, rancida e selvaggia come i gatti che gli si strusciano addosso sotto i temporali, gli brucia dentro fino alle lacrime. E un po' piange, dalla rabbia, dalla frustrazione di non riuscire ancora a comprendere gli esseri umani. Intorno a lui, c'è solo estenuante silenzio.

Yokohama è una città uggiosa piena di solitudine. Si sente solo lo stridio delle rotaie, all'alba, e il fischio di un treno che fa sempre ritardo, che forse non arriverà mai in tempo. Dazai cammina lungo il porto e ogni passo si sgretola nel grigiore del cemento. Per quanto vada avanti, sente che non arriverà mai da nessuna parte, che continuerà a camminare all'infinito senza muoversi per davvero. Il suo corpo è molle e gonfio di angoscia. Si sente vuoto, l'involucro di un uomo ma senza anima: c'è solo stanchezza e alcol, che ormai non fa più effetto, scorre solo come sangue nelle vene. Lo soffoca il concetto stesso di esistere.
Le luci della città sono ancora spente e il sole galleggia nelle onde sotto le barche. Ovunque, dalle panchine e dai balconi delle case, spuntano appendici umane e fiori secchi e cani randagi che ringhiano alle porte chiuse della notte. Non c'è altro che desolazione e insoddisfazione, e nella testa di Dazai non è rimasto più nulla da divorare, nessun ricordo, resta solo la voce di lui che ripete da lontano: "Non sarò mai in grado di amare la morte". L'aveva detto tante volte, e Dazai non l'aveva ascoltato neanche una, o almeno non sul serio. E adesso quelle parole erano ovunque, le vedeva ricostruirsi intorno a sé come avrebbe voluto ricostruire quell'unica volta che aveva amato. Quell'amore lo indolenzisce ancora, nelle ossa e sulla carne. Certe ferite scorrono fluide all'interno dei polsi, non hanno nome, non hanno consistenza, sono solo ricordi che non trovano conforto nemmeno sotto le bende. Vivere è doloroso, soprattutto da sopravvissuto, significa morire lentamente e poi rinascere svuotato di tutto. Amare qualcuno con tanta violenza gli ha lasciato silenzi inesprimibili; non ha più nulla e non appartiene a nulla. Solo la morfina lo aiuta a non perdersi, e a volte non è sufficiente neanche quella.

Non c'era stato nulla di tragicamente romantico, solo sentimenti scomposti e desideri masochistici. Lui era solo un randagio come altri, uno sputo d'umanità come altri. Dazai lo percepisce ancora negli odori antichi dei templi, lo sente mentre gorgoglia e soffoca nelle tazze di latte freddo, che cerca di venir fuori dalle tegole dei tetti. E lui lo sopprime nel nulla, ci potrebbe vivere in eterno nel nulla. Il vuoto gli scava l'anima, lo riempie, e l'intensità di quell'amore è già un rigurgito di ricordi masticati.

Rientra nella camera d'albergo mentre fuori il mattino spezza in due la città. Lascia cadere sul letto quel suo corpo stanco e pesante, sentendosi avvolgere dal tedio. Il mondo sembra voler a tutti i costi andare avanti ma Dazai non si sente ancora pronto, e si chiede se lo sarà mai. Ha paura di non riuscire ancora a piangere, nonostante la tristezza gli scavi nelle viscere, scivola fino in fondo nelle sue membra e poi si disintegra nel mezzo sorriso di un tossico suicida. Sono fatto della stessa sostanza dei mostri. L'essere umano è una razza a cui non appartiene, che egli aborrisce e disprezza con la stessa intensità con cui la teme. E adesso tutto sfugge, ogni cosa è pleonastica. Vorrebbe andare lontano, prendere un treno e calarsi dentro quel mondo che ha estirpato la sua vita, annegare in esso, completamente, per combattere il senso di alienazione e colmare la solitudine. Ma Dazai sta morendo, o così spera, e persino il suo sangue è estraneo sulla sua pelle.

Così ricorre alla morfina e dimentica. Non ha più bisogno di essere. Non ha più bisogno di piangere. Non ha vergogna. È insensibile alla ripugnanza degli altri. Si sente vecchio. E arriva già la sera. E Dazai già non sente più niente.


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Non amo parlare dopo aver lasciato parlare le mie storie; mi dedicherò solo piccoli spazi per fare altrettante piccole, insignificanti precisazioni.

Prima di tutto il titolo: si riferisce al modo in cui Verlaine descrisse Rimbaud. La frase completa è "angelo in esilio, satana adolescente".

La frase messa in evidenza all'inizio è invece una famosa frase attribuita a Dazai.

Questo capitolo è solo di passaggio, non dovrebbe neanche stare all'inizio, eppure eccolo qui.

Bicchieri di whiskey e fiori selvaticiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora