Capitolo 1: "Chi sono io?"

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-Chi sono io?
Sei diversa. Non sei come noi. È ciò che sento, quello che percepisco. Non lo dicono, ma lo vedo da come mi guardano, le persone.
Loro hanno stabilito chi sono. L'avverto quell'etichetta sulla fronte, incollata, indelebile, come un tatuaggio permanente.
Ho sempre creduto che l'essere diversa fosse sinonimo di singolarità. Si, credevo davvero di emergere rispetto a tutta la massa mediocre di persone che mi circonda. Non è un atto di superbia; li sentivo distanti, cosi lontani dal mio mondo, il mondo in cui vivo. Il mio spazio vitale. Non mi piace la realtà, la ritengo disgustosa, maligna, aspra. Ragione per cui mi sono rinchiusa in una torre d'avorio condannando l'animo mio alla più totale solitudine. Nulla più mi appaga. Sono immersa, completamente, affogo, l'aria manca, mi sento strozzare, soffoco, non respiro. Chiudo gli occhi, buio, oscuro, tenebre. Mi perdo.
Dove sono finita?-

Furono le grida di un bambino, a riportarmi sulla terra, discostandomi dalle riflessioni oscure, futili espressioni della mia mente, che disperata vaga e tenta di trovar risposta alle enigmatiche domande che la vita inevitabilmente ti pone. Davanti a me, accasciato sulla madre, c'era quella piccola e pura creatura, avevano un'aria stanca. La madre sembrava più sofferente, portavano con sè dei bagagli, supposi che stessero scappando da qualcosa, o da qualcuno, o forse erano semplicemente in viaggio.
Ero quasi arrivata alla mia fermata, al che mi alzai, accennai un lieve sorriso al bambino e li porsi una caramella. Rimase stupito, mi guardò, e increspò le labbra per ricambiare il sorriso. Era buffo. Io, poi, andai. Mi sentii cosi appagata. E costatai che i bambini sapevano di vita e regalavano felicità.
Ero esausta, stremata, afflitta e affranta, non solo fisicamente, ma soprattutto mentalmente. Preferivo di gran lunga passare l'intera giornata a lavorare, pur di dimezzare il tempo che poi avrei dovuto trascorrere li. In quel lurido orfanotrofio. Dove fui abbandonata. Non sapevo chi fossero, tantomeno come erano i loro visi, e non era mia intenzione venirne a conoscenza. Mi trovarono in mezzo alla strada. Mi avevano buttato li, senza alcuna esitazione, rimpianto, o compassione, ero un peso. Un piatto non gradito gettato nell'immondizia. Fui ripudiata proprio come i bambini che stufi dello stesso giocattolo lo lanciano, da qualche parte. Dimenticandolo per sempre. Tento, a volte di trovare una sola motivazione, che possa giustificare tale comportamento, ma non la trovo. Mai.
Poi, alzai gli occhi e vidi quel tramonto, rimasi esterrefatta: giallo, rosso, arancione, rosa, un'insieme di colori giustapposti fra loro; appariva come un'opera d'arte. E così proprio "tra questa immensità, il mio pensier s'annega". -
...
Entrando in quel luogo, che più a sembrare una casa pareva un manicomio, mi si gettò tra le braccia Narjisse. Era una nostra "usanza" se può essere realmente definita cosi. Ogni volta che arrivavo in casa, lei veniva puntualmente a stritolarmi. Non eravamo sorelle. La conobbi quando ebbi appena compiuto 8 anni, giorno in cui mi trasferirono nel mio precedente orfanotrofio. Ci misero nella stessa stanza, e lei avendo appena perso entrambi i genitori era sconvolta. La feci dormire vicino a me, e le accarezzai i lunghi capelli dorati per tutta la notte. Credo proprio che da quella notte sia nato il legame che tutt'oggi ci lega. Non si tratta di semplice amicizia tantomeno fratellanza: le nostre anime si sono scelte, si sono incastrate, amate. - Hai per caso intenzione di soffocarmi?- le dissi con quel tono sarcastico che mi contraddistingue.
-Mi sei mancata, oggi sei rimasta tutto il giorno fuori- rispose - ti ho aspettato per cena-. Narj era cosi, amorevole, soprattutto nei miei riguardi, nonostante la mia apatia, il mio essere cinica, lei è sempre rimasta a guardarmi, con un sorriso, a braccia aperte, sempre pronta a confortarmi. È solo grazie a lei, che ritengo la mia misera esistenza ancora degna di essere chiamata vita.
Mentre salivo le scale, le risposi - dammi 5 minuti, mi faccio una doccia e arrivo-
-Muoviti!- la udii appena.
Entrai in bagno, aprii il rubinetto della vasca, poi voltandomi verso lo specchio iniziai a spogliarmi. Ecco, quello era il momento che preferivo della mia lunga e stremata giornata. Partivo sempre dal velo, sciogliendomi i capelli. Questa sono io. Non ero pelata o oppressa o malata di cancro, come molti ignoranti a volte credevano. Una cascata di capelli neri, lunghi, mossi caddero sulla mia schiena. Questa sono io pensai di nuovo.
Non posso essere definita tremendamente bella, lo ero, ma in maniera più pacata, in maniera diversa, potevo piacere, ma anche non piacere. Ciò che più mi gustava del mio volto erano gli occhi: non erano azzurri o verdi, erano marroni, color miele più precisamente. Erano differenti rispetto a quelli che si vedono ogni giorno. Sono ciò che mi contraddistingue, lo strumento con cui posso incenerire le persone, oppure farle innamorare di me; eccomi, non c'è frase più sintetica per spiegare al meglio il mio essere: non sono grigia, sono incapace di stare nel mezzo, sono troppo o poco. Mai abbastanza. Poi mi toccò guardarmi il corpo. Ecco quella era la parte che più odiavo. Un'aspra ma al contempo dolce verità: Ero minuta, sicuramente sembravo tutto tranne che una ragazza di 18 anni, non ero grassa, ma nemmeno magra come le modelle che si vedono sulle riviste, con lo spazio tra le gambe e la pancia maledettamente piatta come una tavola da serf, ho provato ad esserlo, ma sono finita col farmi del male, ad autodistruggermi e cosi rinunciai, soprattutto dopo essermi sentita dire una frase particolarmente toccante e cosi veritiera:" ci sono uomini che ogni giorno lottano contro la denutrizione per sopravvivere e tu invece, ragazzina ti uccidi di fame per sentirti bella? È realmente ciò che vuoi?".Entrai in vasca, e senti l'acqua calda scorrermi lungo la pelle. Amo questa sensazione, il momento in cui sei unicamente con te stessa, non c'è alcun individuo intorno, solo il rumore dell'acqua che scorre, un suono così piacevole, ma anche martellante, e pungente. Tant'è vero che durante l'antichità l'usavano come tortura, e rendeva pazzi gli uomini. Iniziai a strofinarmi il corpo, necessitavo di pulirmi, mi sentivo sporca, ma lo facevo in una maniera così insistente da sembrare una bambina, che tenta fallacemente di rimediare al disastro fatto, con una gomma. Non c'è metafora più corretta: ecco io volevo cancellarmi. Cancellarmi dal mondo, da tutto, eclissarmi, oblio totale. A chi sarebbe importato della povera ragazza col velo, musulmana, abbandonata in un orfanotrofio dai propri genitori? A nessuno. Perchè il genere umano è cosi, fastidiosamente egoista, capace di creare un rapporto solo per soddisfacimento dei propri bisogni. È per questo che non credo nell'amore. O meglio dire, prima ero convinta che venisse il principe azzurro a salvarmi, ma poi ho smesso di farlo, quando sono cresciuta, ed ho iniziato a comprendere i meccanismi della vita reale; L'amore come dice Schopenhauer è solo una bellissima illusione. Uno dei due ci rimane secco, perciò tanto vale non scottarsi. Quando finii la doccia, dopo essermi rivestita scesi in cucina dove trovai Narj, era lì ad aspettarmi, un po' spazientita; non capisco come questa ragazza faccia ad essere costantemente così carina e buffa. "Lo sai che la pizza si è raffreddata per colpa tua?", "Scusami Narj, ma mi serviva proprio un bel bagno rilassante" risposi nel modo più pacato possibile, perché seppur minuta, quando si arrabbiava, diventava proprio una bestia. Poi mi chiamò per nome, "Amira", "Mhh, dimmi" cercai di rispondere mentre mangiavo il mio trancio di pizza. "Ti è arrivata questa lettera, oggi" replicò, con un'aria preoccupata.

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