Capitolo 2, seconda parte: Il suicidio.

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-Entra- dissi, col mio tono imponente. Duro, aspro, inevitabile per il mio ruolo.
Ero il sovrano di un impero, fatto di droga, sesso, ma soprattutto armi. Io Viktor ero il boss. L'indiscusso, l'amato, il rispettato, il grande capo, della malavita spagnola.
-Senor, abbiamo portato la lettera alla ragazzina, come aveva ordinato.- disse uno dei miei tanti e servizievoli uomini.
-Bene, puoi andare-.
Lo congedai, cosi, con tre parole. Non dovevo mostrarmi buono, cordiale: era l'altro lato della medaglia del potere, o forse una semplice giustificazione per la mia malagrazia, sgarbataggine e maleducazione.
Un tempo non ero così. Ero diverso, sensibilmente sovrasensibile, un fanciullino.
Ero sfacciato, insolente, eccessivamente irriverente.
Sfruttavo l'immagine di mio padre e della mia famiglia, la nostra ricchezza, notorietà, la nostra autorità. Nei locali tutti mi conoscevano, mi rispettavano e temevano, tutti ambivano la mia compagnia, soprattutto le donne, ero brutalmente spavaldo con loro, uno stronzo, prepotente e maleducato, uno svergognato. Ma comunque mi amavano. Le usavo per scopare, lo faccio tutt'ora in realtà, ma meno. Le fottevo forte, godevano lussuosamente fino ad  urlare il mio nome, io invece gridavo il mio strazio, proprio come i lupi ululano alla luna. Poi tutto finiva lì, in quel letto, ed era cosi ogni notte. Una roulette russa. Inconfutabilmente, la mia vita era l'aspirazione di ogni uomo: bere, mangiare e fare sesso, nulla incollato, attaccato, nessuna responsabilità o peso. Ero leggero, libero,  volavo come le rondini  librano aldilà del mare, toccando il tramonto. Ciò però non mi rendeva appagato, anzi, mi trovavo ad essere più infelice, misero e malinconico. Era una tortura, piacevole, ma rimaneva pur sempre un supplizio. Mio padre, grandissimo stronzo, giustificava costantemente il mio comportamento, certo unendolo a ceffoni, cinquine, e frustate. Obbligava regolarmente i suoi uomini a seguirmi, e loro come dei cani obbedienti mi stavano dietro il culo. Ripeteva sempre, "Se non fosse per la morte di sua madre, l'avrei già ucciso". Il mio temperamento lo esasperava. Li volevo bene, nonostante tutto, forse per quel vuoto che ci eguagliava, ma l'amore per mia madre era imparagonabile, incommensurabile. Poi  raggiunsi il limite, come l'acqua che straripa da un bicchiere. Come un neonato calcia la placenta della madre per poter uscire. Nello stesso modo la sua pazienza fini; emerse  la sua vera essenza, malvagia natura di eterno narcisista, irrimediabile ipocrita. Non nego che io stesso esagerai quella sera; ricordo ancora la neve cadermi addosso, dolcemente. Nascondeva le mie lacrime, gocce sofferenti, timide e lente. Scendevano dai miei occhi color ghiaccio, come lo era diventato il cuore da quella famigerata sera. Avevo i suoi stessi occhi, gli occhi della mia mamma, la mia amata, angelica, cara madre.
Ero ubriaco, avevo bevuto da far schifo, come fanno i tossicodipendenti o i militanti con l'assenzio; si drogavano, per dimenticare, le sofferenze fisiche e psicologiche che la guerra inevitabilmente causava loro. Ma io non ero così: io non dimenticavo, anzi, più bevevo più mi sentivo morto. Percepivo le gelide rotaie sotto il mio corpo; non avevano nulla a che vedere con il morbidissimo letto, in cui passavo le mie notti insonni. Ma andava bene così, il dolore si elimina con altro dolore, mi ripetevo, ossessivamente. Stavo aspettando il treno. In verità attendevo la morte. Ricordo ancora di quella stella, nel cielo, che mi fissava, imperterrita, come se non approvasse la mia scelta; mi domandai se fosse mia madre, che guardandomi dall'alto tentava di mostrare la sua contrarietà, io nel dubbio, urlai, gridai a squarciagola "Mamma sto ritornando da te, aspettami, ti prego". Desideravo ardentemente porre fine alla mia misera esistenza, priva di un senso, uno scopo, o un fine. Volevo cessare il mio affanno, il mio lutto. Non era un atto di vigliaccheria, un momento di vittoria della natura, come credeva Schopenhauer, semmai era un'opera titanica, come stimavano i romantici, l'unico e inevitabile modo per contrastare l'universo. Volevo essere un eroe. Volevo essere uno di loro. Pertanto, tutt'oggi non mi pento di quella mia decisione, se solo fossi riuscito a portarla a buon fine. Avevo 18 anni, ero superbamente intelligente, un piccolo d'Annunzio, un superuomo,  tant'è vero che  già da allora capii, che l'unico antidoto, l'unica cura alla mia malattia poteva essere solo la morte. Mento. In verità non bramavo la morte, io volevo riunirmi nuovamente con la mia mamma. Avevo bisogno di sentire la sua carezzevole voce, narrarmi un'altra di quelle stupide storielle che lei adorava. Fu solo grazie ad ella, alla sua insistenza, la sua dedizione e la sua pazienza, che lentamente e instancabilmente nacque in me l'amore per la letteratura. Io ero un piccolo poeta. In passato. Ora non scrivo più.
Continuavo ad urlare. Sbraitavo, come Vincent van Gogh faceva durante le sue crisi schizofreniche, blateravo di quanto avessi voluto giocare ancora con lei, accarezzarle le morbide e rosee guance, baciarla delicatamente, ridere fino ad avere quel dolore all'addome, scherzare. Mento. In verità Il mio unico e più grande desiderio era quello di poterla riabbracciare, un'ultima volta.
Lo sentivo, stava arrivando, il treno, la mia ora, ma udii anche un altro rumore, dei passi, dei cani, uomini che abbaiavano ad alta voce il mio nome " Viktor dove cazzo sei".  Ne riconobbi una in particolare. Era Jacob, il mio più grande amico, l'unico individuo per cui nutrivo ancora un sentimento, una speranza. Fu lui a salvarmi un'istante prima che il treno mi sfracellasse in tanti piccoli brandelli; il mio tempo non era ancora finito, constatai argutamente.

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