Petrarca 2

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Ovunque nel suo nome si stanno preparando grandi convegni e grandi feste. Come è giusto che sia, dato che lui è Francesco Petrarca, il più onorevole dei letterati.
Nacque nel 1304 e morì a sett’antanni dopo una vita laboriosissima di testi, costellata da amicizie importanti come quelle con Boccaccio e con la famiglia dei Colonna, vissuta da intellettuale libero che mai volle accomodarsi in Accademia e che fu chierico per aver minori vincoli. Fu una vita intrecciata alle sorti del papato “prigioniero” ad Avignone e alle altre faccende storiche d’Italia, come l’insurrezione neo-romana di Cola di Rienzo.

Figlio della malinconia
A scuola insegnano che fu, dopo il periodo “oscuro” del Medio Evo, il primo intellettuale moderno. C’è del vero. Perché fu il primo intelettuale dell’assenza invece che della presenza.
Lo ha scritto con grande chiarezza il maggior studioso di Petrarca in Italia, Marco Santagata, nella introduzione alla edizione nobile del Canzoniere in Mondadori: «Possiamo giudicare straordinariamente moderna l’idea della poesia che nasce dalla mancanza e dalla sottrazione dell’oggetto di desiderio. Se ancora una volta, però, assumiamo un’ottica storica, possiamo osservare che, rispetto ai predecessori, il rovesciamento petrarchesco ha un che di paradossale: nella laica poesia del Duecento la rinuncia o lo scacco del desiderio si risolvevano in perfezionamento morale, insegnamento etico, a volte in impulso religioso; nella moralistica poesia di Petrarca l’esito ultimo, al contrario è la mondanissima valorizzazione del canto come valore in sé».
La “moralistica” poesia di Petrarca ha come risultato la esaltazione dell’azione stessa del poeta, dell’intellettuale. L’aver rinunciato alla presenza dell’oggetto lo ripiega su di sé, a considerare come il “massimo” d’esistenza sia nella propria capacità di analisi e di sforzo morale. La coscienza elabora il mondo in assenza dell’amata e invece che esser luogo in cui l’amore, il senso dell’alterità è al massimo grado, la coscienza diviene il luogo della riduzione di tutto alla propria misura, luogo della legge, e dell’unica certificazione di esistenza del reale. è aperta la via a Cartesio, e, dal punto di vista religioso, a Lutero.
Mentre Dante chiama Beatrice “miracolo” e non accetta l’ingiustizia della sua perdita e perciò la insegue fino in Paradiso, Petrarca chiama subito «Laura giovenile errore», e darà conto nel suo Canzoniere del suo ravvedimento. Lui, lettore di Agostino e di Seneca, si mostrerà infine uomo scevro da passioni. Uno di quelli che, come diceva Péguy, poiché non ama nessuno si sente pronto ad amare Dio.
L’appeso e il vuoto
Petrarca, com’è noto, si vantava di non aver mai letto Dante, ma la filologia attuale ha mostrato con abbondanza di prove che fu proprio l’autore della Commedia quello più letto e “copiato” dal cantore di Laura. A Dante che per non perdere la presenza di Beatrice compie un viaggio ad ogni strato della realtà e della storia, egli oppone il viaggio che l’assenza di Laura rende possibile, quello nella propria psiche e nelle propria morale. Al viaggio che ha come motore e causa la “presenza” di Beatrice, oppone l’unico viaggo che l’assenza dell’amore permette: quello dentro se stessi. è un’opposizione che potrebbe non sembrare tale. Infatti, il campo in cui i due si incontrano e divergono è comunque il campo della cultura segnata dall’ethos e dalla fede cristiana. Non si danno evidenti differenze di costruzione simbolica, né di prospettiva morale. La differenza è sfuggente, è stata illustrata e mai esaurita in mille letture, tra cui quelle dei saggi di Mario Luzi.
Ma la differenza c’è, serpeggia come un brivido lungo tutta l’opera. Eppure dalla stesura della Commedia a quella del Canzoniere sono passate poche decine di anni. Furono decenni intensi, però. Il papato ha lasciato Roma, e quel vuoto, quel deserto nella Città eterna dovette essere uno strano spavento, un segno tremendo per gli uomini come Petrarca. E venne la peste del ’48, quella che tra gli altri si portò via Laura, secondo i dati biografici che di questa donna a tutto oggi sconosciuta ci dà il poeta. Il vuoto, quello lasciato dal Papa e quello lasciato dai molti cari falciati dalla peste, sembra diventare la chiave, forse l’ossessione di Francesco Petrarca. Dante ebbe l’esilio, la lontananza, l’errare. Non il vuoto.

L’uomo intronato
Dante e Petrarca sono entrambi poeti di una donna perduta, una donna che è divenuta tra le braccia della morte un amor lontano più forte di ogni amor lontano provenzale e cortese.
Ma in Dante accade qualcosa per cui tale amor lontano è presente, anzi attivo nella sua storia fino a farsi personaggio nella Commedia: com’è noto Beatrice fa parte di una trafila di donne, lei unica non santa, che da Maria viene in soccorso di Dante mentre è perso nella selva oscura mandando Virgilio. Dante s’era perso proprio perché aveva perso Beatrice. E si “ritrova” ancora grazie a lei. La morte tragica di Laura, invece apre uno spazio, un vuoto, in cui la coscienza del poeta si introna, signora assoluta e solitaria, e analizzando e rielaborando quell’esperienza finisce per presentarsi come uomo stoicamente libero dalle passioni e pronto ad amare solo Dio. Come dice nel sonetto 364, uno degli ultimi.

Infine Dio, il Signore dell’Assenza
La lunga e laboriosa stesura del Canzoniere fu un cantiere estenuante di lavoro linguistico e psicologico. Ne venne un’opera la cui lingua, apparentemente mediana e piana, ma ricca di accordature, di tensioni, di sgomenti, ancora incanta. E che ha fondato la lingua della poesia italiana, da Leopardi a Ungaretti. In quelle poesie, Petrarca offre, con gesto all’apparenza modesto ma da gran signore, una gran copia di spunti interpretativi, di piste di lettura, di possibili prospettive. Creando con Laura un mito immortale e vivo proprio per la sua imprendibilità. Quella era per lui l’opera principale, anche se le pagine latine, in saggi ed epistole, sono capitali per la comprensione della sua figura. Petrarca sapeva, come ogni lupo di razza, che il suo “avversario” era il poeta di Beatrice, e dunque si concentrò a opporre anch’egli un’opera immortale che facendo i conti con tutta la tradizione precedente, fosse una chiave nuova. Ancora Santagata nota che mentre Dante fu poeticamente un “eversore”, Petrarca fu un grande restauratore.
E anche il fatto che mentre si sapeva che Beatrice era una donna reale, vissuta con nome cognome e, fatto non secondario, non moglie di Dante (poiché di donna amata si tratta, non di donna propria) Petrarca fu costretto a inventarsi cenni biografici della sua Laura, con quel nome così simile alla Laurea poetica, e a dire a chi scommetteva che lei non esistesse: «venite a veder Laura». E nel Secretum arriverà a parlar di lei come di donna sposata e rovinata dalle molte gravidanze. 
Ma per comprendere il sottile e grandioso gioco in cui Petrarca ci guida e ha guidato la cultura moderna basta vedere l’inizio del Canzoniere.
è un testo che annuncia un uomo che è uscito da un «giovenile errore», che fu quello d’amare Laura. Per quell’amore, prosegue il sonetto, Petrarca sa d’esser stato “favola” per il popolo tutto e spesso ne ha vergogna. Ora sa però, e lo vuole far sapere, che, come recita l’ultimo verso:
Il mondo non vale, in fondo. Più nulla è significativamente presente, se non come breve sogno. C’è gia Shakespeare, Leopardi, e Montale. Resta, come abbellimento struggente l’arte, la poesia. E Dio come Signore dell’Assenza.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Mar 11, 2020 ⏰

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