Il canto del cinismo

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Avete in mente quando passa in tv la pubblicità di save the children? Ecco, io penso sempre che mi sembra assurdo fare una donazione, perché loro non sono educati al nostro stesso approccio alla vita.
Per la loro cultura, per quello che conoscono e imparano, per quello che esperiscono e gli è stato tramandato, bisogna avere molti figli perché non si può mai sapere quanti di loro sopravviveranno, quanti di loro mangeranno durante la settimana e potranno aiutare in casa.
La nostra cultura, invece, è basata su una mezza verità che possiamo accettare o meno: noi cresciamo tutti pensando di meritare la felicità, o almeno la dignità, anche se per uno che vince c'è sempre qualcuno che perde.
Per questo il coronavirus è così sconvolgente, per questo ci sentiamo traditi da quelle promesse di bella vita; il virus è democratico, non guarda in faccia nessuno ed è crudele con tutti; a dimostrazione di ciò vi è quella terrificante foto dei camion militari che trasportano i morti fuori da Bergamo.
La libertà limitata, le salme dei nostri cari allontanate e la quarantena ci spaventano perché abbiamo dimenticato il cerchio della vita e le regole di madre natura.
Sono la prima a non voler vedere la propria famiglia morire, ma so che è perché voglio proteggere la felicità promessami da altri essere umani fragili quanto me.
C'è un profondo egoismo nell'essere tutti felici, perché non sappiamo sacrificarci per condividere la nostra felicità.
Parlo di una solidarietà che vada oltre le speculazioni filosofiche e i manifesti politici, ma voglio richiamare quella frase "Per crescere un bambino ci vuole un villaggio".
Utopica, persa, gratuita e pura gentilezza, che ora sembra un eco sbiadito della società.
E quando non c'è empatia o vero interesse umano, il paese diventa un banchetto di leccornie sul quale si avventano smodatamente milioni di bestie a digiuno, fino a che nel caos della furia generale, le mosse dei camerieri diventano impacciate e scoordinate.
Mi è capitato di sentire in un talk show che noi italiani stiamo "improvvisando", e lo stiamo facendo davvero.
Improvvisiamo su come gestire un lutto vuoto, silenzioso e invisibile.
Improvvisiamo le cene per i nostri figli con quello che abbiamo in casa, perché uscire fa paura.
Improvvisiamo su come baciare i mariti e le mogli, perché non sappiamo davvero se una doccia basterà o il dado è già tratto.
C'è anche chi improvvisa il proprio matrimonio, coloro che non sono mai stati insieme in casa per più di cinque giorni consecutivi.
Improvvisiamo i modi per intrattenere noi stessi e le nostre famiglie.
Improvvisiamo la scuola e lo Smart working.
Siamo, come sempre, un paese di funamboli che si sbilanciano di continuo verso il fallimento e il successo e ci compensiamo per un soffio, spesso a spese dei dimenticati.
Siamo un paese di sbadati, di artisti, di imbroglioni e di glorie eterne.
Siamo diventati un popolo di inetti e ora potremmo starci sbilanciando verso qualcosa di irrecuperabile.
Studiando Svevo e i suoi personaggi, ho sentito la mia prof pronunciare "si nasce inetti e si muore inetti", così noi siamo nati come artisti di strada e moriremo da artisti di strada.



By Anonimo

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